Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. Il romanzo è pubblicato in Italia, tra gli altri, da Mondadori, con un prezzo di copertina di 10,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Ventimila leghe sotto i mari: trama del libro
La storia è ambientata nel periodo immediatamente successivo alla guerra di secessione. Caduti in mare dalla nave sulla quale viaggiavano, all’inseguimento di un misterioso mostro marino, il professor Aronnax, naturalista del Museo di Storia Naturale di Parigi, e il fiociniere Ned Land, vengono inaspettatamente salvati dal capitano Nemo e ospitati a bordo della sua straordinaria nave sottomarina Nautilus. Ha così inizio per loro una incredibile serie di avventure che li porterà a solcare i sette mari e le sconosciute profondità oceaniche, tra foreste sottomarine, selvaggi antropofagi, squali e perle giganti.
Approfondimenti sul libro
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Effettivamente, da qualche tempo, vari bastimenti avevano incontrato in mare una “cosa enorme”, un oggetto lungo, fusiforme, talvolta fosforescente, assai più grande e più veloce d’una balena.
I fatti relativi a tale apparizione, registrati nei diversi giornali di bordo, concordavano abbastanza nettamente sulla struttura dell’oggetto, o dell’essere, in questione, sulla velocità sbalorditiva dei suoi movimenti, sulla insolita potenza della sua locomozione, sulla vita particolare di cui sembrava dotato. Se si trattava d’un cetaceo, esso superava in volume tutti quelli classificati sino allora dalla scienza. Né Cuvier, né Lacépède, né il signor Dumeril né il signor De Quatrefages avrebbero mai ammesso l’esistenza di un mostro simile – a meno di averlo visto, letteralmente visto coi loro propri occhi di scienziati.
Attenendosi alla media delle osservazioni fatte in diverse occasioni – rifiutando le timide valutazioni che assegnavano a quell’oggetto una lunghezza di duecento piedi, e respingendo i giudizi esagerati che gli attribuivano fino a un miglio di larghezza e tre di lunghezza – si poteva comunque affermare che quest’essere fenomenale superava, nelle proprie dimensioni, tutte le misure ammesse fino allora dagli ittiologi – se pur tuttavia veramente esisteva.
Ma insomma esisteva, la cosa non poteva più negarsi; e, data la tendenza al meraviglioso che è propria allo spirito umano, si capirà facilmente l’emozione dovunque prodotta da quella sovrannaturale apparizione. Quanto a respingerla nel mondo delle favole, bisognava rinunziarvi.
Infatti, il 20 luglio 1866 il piroscafo Governor Higginson, della “Calcutta and Burnach Steam Navigation Company”, aveva incontrato quella massa in movimento cinque miglia a est delle coste australiane. Il capitano Baker si era creduto, dapprima, in presenza d’uno scoglio sconosciuto; mentre si disponeva a rilevarne l’esatta posizione, due colonne d’acqua proiettate dal misterioso oggetto si erano scagliate sino a centocinquanta piedi d’altezza. Dunque, a meno che lo scoglio fosse sottoposto all’azione intermittente di un geyser, il Governor Higginson aveva a che fare né più né meno che con qualche mammifero marino, sino allora sconosciuto, che espelleva dai propri sfiatatoi colonne d’acqua mescolata ad aria e a vapore.
Analogo fatto venne osservato il 23 luglio dello stesso anno, nei mari del Pacifico, dal Cristobal Colon della “West India and Pacific Steam Navigation Company”. Dunque, lo straordinario cetaceo poteva trasferirsi da un posto a un altro con velocità sorprendente, poiché, a distanza di tre giorni, il Governor Higginson e il Cristobal Colon lo avevano osservato in due punti separati, sulla carta oceanica, da più che settecento leghe marine.
Quindici giorni più tardi, duemila leghe più lontano, lo Helvetia della “Compagnie Nationale” e lo Shannon della “Royal Mail”, incrociandosi in quella porzione dell’Atlantico che è compresa tra gli Stati Uniti e l’Europa, si segnalarono a vicenda il mostro a 42° 15’ di latitudine Nord e 60° 35’ di longitudine Ovest del meridiano di Greenwich. Da questa osservazione simultanea si ritenne poter valutare la lunghezza minima del mammifero in più di trecentocinquanta piedi inglesi,1 dato che lo Shannon e l’Helvetia erano di dimensioni minori benché misurassero cento metri da prua a poppa. Ora, le più grosse balene, quelle che frequentano i paraggi delle isole Aleutine, il Kulammak e l’Ungullik, non hanno mai superato i cinquantasei metri di lunghezza – se pur li hanno mai toccati.
Tanto questi rapporti arrivati uno dopo l’altro che le nuove osservazioni fatte a bordo del transatlantico Pereire, e una collisione tra l’Etna della Linea Inman e il mostro, e un verbale steso dagli ufficiali della fregata francese Normandie, e un serissimo rilevamento ottenuto dallo stato maggiore del commodoro Fitz-James a bordo del Lord Clyde, emozionarono profondamente l’opinione pubblica. Nei paesi di umor lieve si fece del fenomeno oggetto di scherzo; ma i paesi gravi e pratici, l’Inghilterra, l’America, la Germania, se ne preoccuparono estremamente.
Dappertutto, nei grandi centri, il mostro andò di moda. Lo si cantava nei varietà e beffeggiava nei giornali, lo si recitò sui palcoscenici. I canards colsero bellissime occasioni di produrre uova di tutti i colori.2 Si videro riapparire sui giornali, in mancanza di notizie, tutti gli esseri immaginari e giganteschi, a partire dalla balena bianca, il terribile “Moby Dick” delle regioni iperboreali, fino allo smisurato “Kraken” i cui tentacoli possono avvinghiare un bastimento di cinquecento tonnellate e trascinarlo negli abissi dell’oceano. Furono riprodotti perfino i verbali dell’antichità, i pareri d’Aristotele e di Plinio che ammettevano l’esistenza di quei mostri, poi i racconti norvegesi del vescovo Pontoppidan, le relazioni di Paul Heggede, e infine i rapporti di Harrington, la cui buona fede non può esser sospettata, in cui l’autore afferma di aver visto, trovandosi a bordo del Castillan nel 1857, quell’enorme serpente di mare che fino allora non aveva mai frequentato altri mari che quelli cartacei del vecchio Constitutionnel…3
Allora, esplose l’interminabile polemica dei creduli e degli increduli, nelle associazioni scientifiche e tra i loro periodici. La “questione del Mostro” infiammò gli spiriti. I giornalisti che professano la fede nella scienza e quelli che la professano nell’umorismo, in lotta tra loro, versarono fiumi d’inchiostro in quella memorabile battaglia; alcuni, anche qualche goccia di sangue, poiché dai serpenti di mare si erano lasciati portare ai personalismi più offensivi.
Per sei mesi la guerra imperversò con alterne fortune. Agli articoli di fondo dell’Istituto geografico del Brasile, dell’Accademia reale delle Scienze di Berlino, dell’Associazione britannica, dell’Istituto Smithsoniano di Washington, alle discussioni del “The Indian Archipelago”, del “Cosmos” dell’abate Moigno, delle “Mittheilungen” di Petermann, alle cronache scientifiche dei grandi giornali della Francia e dell’estero, la stampa minore restituiva i colpi con spirito inesauribile. I suoi brillanti scrittori, parodiando una frase di Linneo citata dagli avversari del mostro, sostennero infatti che “la natura non fa degli stupidi”,4 e scongiurarono i loro contemporanei di non smentire la natura con l’ammettere l’esistenza dei Kraken, dei serpenti di mare, dei “Moby Dick” e altre trovate di marinai in delirio. Finalmente, in un articolo su un giornale satirico molto temuto, il più popolare dei suoi redattori, tirando le somme di tutto, partì all’attacco del mostro come Ippolito, gli inferse un ultimo colpo e lo finì, tra le risate universali. La spiritosità aveva vinto la scienza.
Nei primi mesi del 1867 la cosa parve dimenticata, e non sembrava che dovesse tornare mai d’attualità, quando nuovi fatti furono portati a conoscenza del pubblico. Da quel momento non si trattò più di un problema scientifico da risolvere, ma di un pericolo reale, serio, da evitare. La questione prese un nuovo aspetto: il mostro ridiventò isolotto, roccia, scoglio, ma scoglio sfuggente, indeterminabile, inafferrabile.
Il 5 marzo 1867, il Moravian della “Montreal Ocean Company”, trovandosi di nottetempo a 27° 30’ di latitudine e 72° 15’ di longitudine, urtò con la sua fiancata di dritta una roccia che nessuna carta segnalava in quei paraggi. Sotto la doppia spinta del vento e dei suoi quattrocento cavalli-vapore, stava navigando alla velocità di tredici nodi. Non vi è dubbio che, non fosse stato per la qualità superiore della sua carena, il Moravian, squarciato nell’urto, si sarebbe inabissato con i duecentotrentasette passeggeri che aveva imbarcati nel Canada.
L’incidente era accaduto verso le cinque del mattino, sullo spuntar del giorno. Gli ufficiali del quarto di guardia si precipitarono a poppa. Scrutarono l’Oceano con la più scrupolosa attenzione. Non videro nulla, tranne un forte risucchio a tre gomene di distanza, come se la superficie liquida fosse stata violentemente sconvolta. Il rilevamento locale fu preso con esattezza e il Moravian riprese la rotta senza apparenti avarie. Aveva urtato contro una roccia sottomarina, o contro qualche enorme relitto di naufragio? Non si poté stabilirlo; ma, esaminata in bacino di raddobbo la sua carena, si constatò che una parte della chiglia era rimasta fracassata.
Questo fatto, per se stesso estremamente grave, sarebbe stato probabilmente dimenticato come tanti altri se, tre settimane dopo, non si fosse ripetuto in condizioni identiche. Soltanto, a causa della nazionalità della nave vittima di questa nuova collisione, e a causa della reputazione della Compagnia armatrice, l’avvenimento ebbe un’eco immensa.
Nessuno ignora il nome del celebre armatore inglese Cunard. Questo intelligente industriale fondò, nel 1840, un servizio postale tra Liverpool e Halifax con tre navi di legno e a ruote, della forza di quattrocento cavalli e d’una stazza di millecentosessantadue tonnellate. Otto anni dopo il naviglio della Compagnia si accresceva di quattro bastimenti di seicentocinquanta cavalli e di milleottocentoventi tonnellate, e due anni più tardi di due altri bastimenti superiori per potenza e tonnellaggio. Nel 1853 la Compagnia Cunard, il cui privilegio per il trasporto dei dispacci era stato rinnovato, aggiunse alla propria flotta l’Arabia, il Persia, il China, lo Scotia, il Giava, il Russia, tutte navi di prima qualità, le più grandi che dopo il Great Eastern avessero mai solcato i mari. Così dunque nel 1867 la Compagnia possedeva dodici bastimenti, dei quali otto a ruote e quattro a elica.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore francese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Jules Verne.
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