Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La ventisettesima città di Jonathan Franzen, romanzo edito in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 15,00 euro (ma online lo si acquista con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
La ventisettesima città: trama del libro
St. Louis, nel Missouri, è una città paralizzata dall’immobilismo e dall’apatia e l’unico avvenimento che un giorno riesce a scuoterla dal torpore è l’arrivo del nuovo capo della polizia, S. Jammu, indiana di Bombay. Jammu è giovane, ha un grande carisma, e, non appena si insedia, comincia a rendersi conto che a St. Louis i cittadini più in vista sono coinvolti in un intrigo politico-economico di dimensioni gigantesche. Così decide di mettere loro alle calcagna degli uomini fidati per frugare fin negli angoli più reconditi della loro esistenza. Senza sapere che questa la costringerà a frugare anche nella propria.
- Per altri dettagli rimandiamo alla scheda completa di La ventisettesima città su Amazon.
- Qui potete leggere le recensioni dei lettori su Amazon.
Era il 1º agosto. Il subcontinente indiano salí di nuovo all’onore della cronaca locale il 4 agosto, quando lo scapolo piú ambito di St. Louis sposò una principessa di Bombay. Lo sposo era Sidney Hammaker, presidente della Hammaker Brewing Company, l’industria-simbolo della città. Della sposa si disse che era favolosamente ricca. Nei resoconti delle nozze i giornali riportarono che aveva una collana di brillanti assicurata per undici milioni di dollari, e che si era portata una schiera di diciotto persone di servizio per accudire alle proprietà degli Hammaker a Ladue, fuori città. I fuochi artificiali sparati durante il ricevimento per il matrimonio sommersero di cenere i prati a un paio di chilometri di distanza.
Una settimana piú tardi cominciarono i primi avvistamenti. Una famiglia indiana di dieci elementi venne notata su un’aiuola spartitraffico, a poca distanza dal Cervantes Convention Center. Le donne indossavano sari, gli uomini completi neri, i bambini pantaloncini corti da ginnastica e T-shirt. Tutti con in volto un’espressione lievemente infastidita.
All’inizio di settembre scene di questo tipo erano diventate una costante della vita quotidiana in città. Capitava di vedere degli indiani bighellonare senza motivo apparente tra Dillard e il centro di St. Louis. Li si poteva osservare stendere coperte nel parcheggio del museo di arti figurative e prepararsi un pasto caldo all’aperto, giocare a carte sul marciapiede davanti al National Bowling Hall of Fame, prendere in considerazione case in vendita a Kirkwood e a Sunset Hills, fare fotografie davanti alla stazione dell’Amtrak in centro, oppure far grappolo attorno alla capote di una Delta 88 ferma su Forest Parkway. I bambini avevano sempre l’aria beneducata.
L’inizio di autunno era anche la stagione in cui si faceva vivo un altro – e piú familiare – visitatore d’oriente, il Profeta Velato di Khorassan. Un gruppo di uomini d’affari aveva evocato il Profeta nel secolo diciannovesimo, perché li aiutasse a raccogliere i fondi per iniziative filantropiche. Ogni anno Egli tornava e Si reincarnava in uno dei cittadini piú illustri, la cui identità rimaneva rigorosamente segreta creando con il Suo mistero anagrafico un’atmosfera giocosa e incantata. È stato scritto:
Là su quel trono, al quale la fede cieca
Di milioni lo innalzò, sedeva il Profeta-Capo,
Il Grande Mokanna. Steso sui lineamenti era
Il Velo suo d’Argento, che aveva lí calato
Per misericordia, onde celare a vista mortale
Il viso suo abbagliante di luce immensa.
La pioggia cadde una sola volta in settembre, il giorno della Parata del Profeta Velato. L’acqua ruscellava lungo gli strumenti delle bande in marcia, e i trombettieri faticavano ad accostare la bocca all’imboccatura. I ponpon avvizzivano macchiando di colore le mani delle ragazze che poi se le passavano sulla fronte nel mandare indietro i capelli. Parecchi carri si impantanarono.
La sera del ballo per il Profeta Velato, il piú importante avvenimento dell’anno, violente raffiche di vento abbatterono i fili elettrici dell’intera città. Nella sala Khorassan del Chase-Park Plaza Hotel il ballo delle debuttanti si era appena concluso, quando andò via la luce. Arrivarono di corsa i camerieri con dei candelabri, e quando accesero il primo la sala si riempí di un mormorio di sorpresa e costernazione: il trono del Profeta era vuoto.
In Kingshighway una Ferrari 275 nera oltrepassò a tutta velocità i supermarket privi di finestre e le chiese massicce della zona nord della città. Eventuali curiosi avrebbero potuto scorgere una tunica immacolata dietro il parabrezza, una corona sul sedile del passeggero. Il Profeta stava andando verso l’aeroporto. Parcheggiata l’auto in una corsia di emergenza, Egli si precipitò nell’atrio del Marriott Hotel.
– Ha dei problemi, per caso? – disse un ragazzo d’albergo.
– Io sono il Profeta Velato, cretino.
All’ultimo piano dell’albergo, Egli si fermò a una porta e bussò. La porta venne aperta da una donna alta e coi capelli scuri in tuta da jogging. Era molto carina. Scoppiò a ridere.
Quando il cielo prese a illuminarsi, in basso, verso oriente, sopra l’Illinois meridionale, i primi a saperlo furono gli uccelli. Lungo le rive del fiume e in tutti i parchi e le piazze del centro, gli alberi presero a stormire e frusciare. Era il mattino del primo lunedí d’ottobre. In centro gli uccellini si stavano svegliando.
A nord del quartiere degli affari, dove vivevano i piú poveri, una leggera brezza mattutina portava un odore di liquore stantio e di sudore innaturale tra i viali dove nulla si muoveva e tutto ristagnava: una porta sbattuta con violenza si udí fino a molti isolati di distanza. Nei cantieri ferroviari della conca centrale della città, in mezzo al ronzio di montacarichi difettosi e alle improvvise terrificanti vibrazioni delle barriere anticicloniche, uomini dai capelli cortissimi sonnecchiavano nelle cabine degli scambi. Alberghi a tre stelle e cliniche private con una vista pessima occupavano gli spazi lí attorno. Piú lontano, a occidente, il terreno si faceva collinoso, e alberi piú sani e vigorosi collegavano i vari insediamenti, ma questa non era piú St. Louis, erano sobborghi residenziali. A sud si stendevano file e file di casette cubiche in mattoni dove vedovi e vedove stavano distesi sul letto, e gli avvolgibili alle finestre, abbassati secoli fa, non sarebbero stati alzati neanche quel giorno.
Ma nessuna parte della città era morta piú del centro. Qui, nel cuore di St. Louis, al riparo dal lancinante traffico notturno sulle quattro autostrade, c’era dovizia di parcheggi. Qui i passeri bisticciavano e i piccioni mangiavano. Qui il municipio, una copia con tetto a displuvio dell’Hotel de Ville di Parigi, si ergeva con un suo splendore bidimensionale al centro di un’area piatta e vuota. L’aria in Market Street, il corso principale, era pulita, sana. Su entrambi i lati si sentivano gli uccellini cantare singolarmente, o in coro, come in un prato, come nei giardini sul retro di casa.
La custode di questa pace non aveva chiuso occhio per tutta la notte a Clark Avenue, poco piú a sud del municipio. Il capo Jammu, al quinto piano del quartier generale della polizia, stava aprendo il giornale del mattino e lo dispiegava sotto la lampada della scrivania. L’ufficio era ancora al buio e, dal collo in giú, con le spalle curve e strette e le ginocchia ossute nei calzettoni e i piedi irrequieti, il capo appariva agli occhi del mondo come una scolaretta intenta a ripassare la lezione.
Ma la testa non era altrettanto giovane. Mentre si chinava sul giornale, la luce della lampada evidenziò ciocche bianche tra i capelli neri e serici sopra l’orecchio sinistro. Come Indira Gandhi, che in quella mattina di ottobre era ancora viva e primo ministro dell’India, Jammu era brizzolata in modo asimmetrico. Teneva i capelli lunghi abbastanza da poterli raccogliere e fissare sulla nuca. Aveva una fronte ampia, naso affilato e curvo, e labbra grandi che parevano esangui, bluastre. Quand’era riposata, gli occhi scuri dominavano il viso, ma quella mattina erano offuscati e segnati da borse. Una miriade di piccole rughe tagliava la pelle liscia ai lati della bocca.
Girando una pagina del «Post-Dispatch», trovò quello che cercava, una sua fotografia presa in un giorno buono. Sorrideva, gli occhi seducenti. La didascalia «Jammu, uno sguardo al privato» le riportò sulle labbra lo stesso sorriso. L’articolo che l’accompagnava, di Joseph Feig, scorreva sotto il titolo UNA NUOVA VITA ALLA CITTÀ. Prese a leggere.
Pochi lo ricordano adesso, ma il nome Jammu apparve sui giornali americani una decina di anni fa. Era l’anno 1975. Il subcontinente indiano era in tumulto in seguito alla sospensione dei diritti civili da parte del primo ministro Indira Gandhi e ai severi provvedimenti da lei presi nei confronti dei suoi avversari politici.
Tra le varie versioni contrastanti e pesantemente censurate, una strana storia accaduta a Bombay arrivò alla stampa occidentale. Riguardava un’operazione nota come Progetto Poori, attuata da un funzionario di polizia di nome Jammu. A Bombay, a quanto pareva, la polizia si era data alla vendita all’ingrosso di alimentari.
L’operazione allora sembrò folle: e anche oggi non la si definirebbe altrimenti. Ma ora che un ghiribizzo del fato ha portato Jammu a St. Louis nel ruolo di capo della polizia, la gente si chiede se il Progetto Poori fosse davvero cosí folle.
Durante una recente intervista nel suo vasto ufficio di Clark Avenue, Jammu ha parlato delle circostanze che la condussero al progetto.
«Prima che la signora Gandhi sospendesse la Costituzione, il paese era come la Danimarca di Gertrude: marcio fino alle radici. Ma con l’imposizione della legge presidenziale, noi dell’esecutivo avemmo la possibilità di fare qualcosa in merito. Nella sola Bombay arrestavamo 1500 persone la settimana per varie violazioni e sequestravamo 30 milioni di rupie in merce illegale e contanti. Quando due mesi piú tardi facemmo il punto dei nostri sforzi, ci rendemmo conto di aver fatto dei progressi insignificanti», ricordava Jammu.
La legge presidenziale ha origine da una norma della Costituzione indiana che concede al governo centrale poteri illimitati in tempi di emergenza. Per questa ragione i diciannove mesi di applicazione di tale legge vennero denominati l’Emergenza.
Nel 1975 una rupia valeva circa dieci centesimi di dollaro.
«All’epoca ero vicecommissario, – ha detto Jammu. – Suggerii un metodo diverso. Dal momento che minacce e arresti non funzionavano, perché non tentare di sconfiggere la corruzione sul suo terreno?
Perché non mettere in piedi anche noi un’impresa e sfruttare le nostre risorse e la nostra influenza per creare un mercato piú aperto? Scegliemmo un genere di prima necessità: il cibo», ha aggiunto.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore americano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Jonathan Franzen.
Lascia un commento