Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Venuto al mondo di Margaret Mazzantini. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 15,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Venuto al mondo: trama del libro
Una mattina Gemma lascia a terra la sua vita ordinaria e sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio, Pietro, un ragazzo di sedici anni. Destinazione Sarajevo, città-confine tra Occidente e Oriente, ferita da un passato ancora vicino. Ad attenderla all’aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi invernali del 1984 traghettò Gemma verso l’amore della sua vita, Diego, “il fotografo di pozzanghere”. Il romanzo racconta la storia di questo amore, una storia di ragazzi farneticanti che si rincontrano oggi, giovani sprovveduti, invecchiati in un dopoguerra recente. Una storia d’amore appassionata, imperfetta come gli amori veri. Ma anche la storia di una maternità cercata, negata, risarcita. Il cammino misterioso di una nascita che fa piazza pulita della scienza, della biologia, e si addentra nella placenta preistorica di una Guerra che mentre uccide procrea.
Approfondimenti sul libro
Venuto al mondo è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 7,99.
Speranza, penso a questa parola che nel buio prende forma. Ha la faccia di una donna un po’ sgomenta, di quelle che trascinano la loro sconfitta eppure continuano ad arrabattarsi con dignità. La mia faccia, forse, quella di una ragazza invecchiata, ferma nel tempo, per fedeltà, per timore.
Esco sul terrazzo, guardo il solito. Il palazzo dirimpetto al nostro, le persiane accostate. Il bar con l’insegna spenta. C’è il silenzio della città, polvere di rumori lontani. Roma dorme. Dorme la sua festa, il suo pantano. Dormono le periferie. Dorme il papa, le sue scarpe rosse sono vuote.
La telefonata arriva al mattino molto presto. Sussulto per lo squillo, inciampo lungo il corridoio, forse urlo per sembrare sveglia.
«Chi è?»
C’è rumore nella cornetta, come vento in fuga tra i rami.
«Posso parlare con Gemma?»
L’italiano è buono, ma le parole sono troppo scandite.
«Sono io.»
«Gemma? Tu sei Gemma?»
«Sì…»
«Gemma…»
Ripete il mio nome e adesso sta ridendo. Riconosco questa risata rauca, strappata… mi salta addosso in un attimo.
«Gojko…»
Fa una pausa. «Sì, il tuo Gojko.»
È un’esplosione ferma. Un lungo vuoto che si riempie di detriti.
«Il mio Gojko…» balbetto.
«Proprio lui.»
Il suo odore, la sua faccia, i nostri anni.
«Sono mesi che provo a cercarti attraverso l’ambasciata…»
Ho pensato a lui pochi giorni fa, per strada, dal niente, da un ragazzo che passava e forse gli somigliava.
Parliamo un po’: Come va? Che fai? Ho vissuto qualche anno a Parigi e adesso sono di nuovo a casa…
«Organizzano una mostra per ricordare l’assedio… ci sono anche le fotografie di Diego.»
Il freddo del pavimento si arrampica sulle gambe, si ferma nella pancia.
«È un’occasione.»
Ride ancora, come rideva lui, senza una vera allegria, piuttosto per consolare quella tristezza lieve ma perenne.
«Vieni.»
«Ci penso, sì…»
«Non devi pensarci, devi venire.»
«Perché?»
«Perché la vita passa, e noi con lei. Ti ricordi?»
Certo che mi ricordo…
«E ride di noi, come una vecchia puttana sdentata che aspetta l’ultimo cliente…»
I versi di Gojko… la vita come una lunga ballata. Ora mi ricordo il suo modo di toccarsi il naso, di schiacciarselo come cera molle mentre dice quei versi che scrive sullescatole dei cerini, sulle mani. Sono in mutande, ho i piedi nudi. Gojko è vivo, è sempre stato vivo. Di colpo mi chiedo come ho fatto a rinunciare a lui per tutto questo tempo. Perché nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?
«D’accordo, vengo.»
Il fango fermo della vita ora è polvere che vola verso di me.
Gojko esulta, urla di gioia.
C’era polvere quando lasciai Sarajevo, s’alzava dalle cose smossa dal vento gelido, turbinava nelle strade, cancellava indietro. Copriva i minareti, i palazzi, i morti del mercato, sepolti dalle verdure, dalle chincaglierie, dai pezzi di legno dei banchi divelti.
Chiedo a Gojko perché mi ha cercato solo adesso, perché solo adesso ha avuto nostalgia di me.
«Sono anni che ho nostalgia di te.»
La sua voce scompare dietro a un sospiro. C’è di nuovo rumore di vento… di chilometri di distanza.
Di colpo ho paura che la linea cada e torni quel silenzio durato anni, che adesso mi sembra insopportabile.
Rapidamente gli chiedo il suo numero di telefono. È un portatile, lo segno su un pezzo di carta con una penna che non scrive. Dovrei cercarne un’altra ma ho paura a staccarmi dal telefono. Il rumore è sempre più forte. Vedo un filo del telefono che si spezza e cade scintillando… quanti ne ho visti di cavi appesi nel nulla in quella città isolata. Arpiono il passato, calcando sul foglio, con il timore di perderlo ancora una volta.
«Ti richiamo per dirti quando arriva il volo.»
Vado in camera di Pietro, rovescio le sue penne, ricalco quel numero bianco. Pietro dorme, i piedi lunghi fuori dal lenzuolo. Penso quello che penso sempre quando lo guardo steso, che il suo letto è troppo piccolo, ormai, e va cambiato. Raccolgo la chitarra, buttata in terra accanto alle ciabatte. S’arrabbierà, dovrò lottare per convincerlo a venire con me.
Mi faccio la doccia e raggiungo Giuliano in cucina. Ha già preparato il caffè.
«Chi era al telefono?»
Non rispondo subito, ho gli occhi laccati, immobili. Sotto la doccia la pelle mi è sembrata dura come un tempo, quando mi lavavo svelta e uscivo di casa con i capelli bagnati.
Gli dico di Gojko, gli dico che vorrei partire.
«Così, all’improvviso?»
Ma non sembra sorpreso.
«L’hai detto a Pietro?»
«Dorme.»
«Forse è il caso che lo svegli.»
Ha la barba della notte, i capelli in disordine gli sporcano la fronte, si vede di più la parte calva al centro della testa. Durante il giorno è sempre a posto, è un animale di città, di caserme, di archivi. Quel disordine è solo per me, e mi sembra ancora la nostra parte migliore, la più odorosa e segreta… quella dei primi tempi, quando facevamo l’amore e poi ci sedevamo nudi e spettinati a guardarci. Siamo marito e moglie, mi è venuto incontro in un aeroporto militare sedici anni fa. Eppure quando gli dico che mi ha salvato la vita scuote la testa, diventa rosso, dice che non è vero, dice siete stati voi, tu e Pietro, che avete salvato la mia.
È ghiotto. Approfitta della situazione, dei miei occhi trasecolati, mangia un altro plum-cake.
«Non lamentarti della pancia, poi…»
«Sei tu che ti lamenti, io mi accetto.»
È vero, lui si accetta, e per questo è così accogliente. Si alza, mi sfiora una spalla.
«Fai bene ad andare.»
Ha letto nel mio sguardo un ripensamento… d’improvviso ho paura. Sono precipitata troppo in fretta indietro, nell’ardore della giovinezza. Che adesso mi sembra solo rimpianto. Ho freddo al collo, devo tornare in bagno ad asciugarmi i capelli con il fon. Sono di nuovo io, una ragazza sconfitta a un passo dalla vecchiaia.
«Devo organizzarmi, devo andare in redazione, non… non lo so.»
«Invece lo sai.»
Dice che mi chiamerà dall’ufficio quando andrà su internet, forse riuscirà a trovare dei biglietti low cost, sorride: «Non credo che ci sia la fila per andare a Sarajevo».
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice italiana rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Margaret Mazzantini.
Lascia un commento