Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Verderame di Michele Mari. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 18,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Verderame: trama del libro
In una casa sulle rive del Lago Maggiore, un ragazzino di tredici anni ha una lunga estate da passare con i nonni, nella noia più assoluta. È abituato a stare delle ore in biblioteca, divorando le più svariate letture, ma, tra un classico d’avventura e un Urania, il tempo non passa mai. Fuori si aggira una creatura mitologica, un mostro spaventoso: l’uomo del verderame. Felice sembra avere l’età della casa, è li da sempre a occuparsi del giardino, a sterminare le lumache e scuoiare i conigli, e per Michele rappresenta l’incarnazione mitica e terrifica di migliaia di mostri immaginati. L’incontro fra i due sprofonderà il ragazzino in avventure vertiginose, misteriose ricerche nei più reconditi anfratti della casa, rinvenimenti di cadaveri, il fantasma del Gran Coniglio, bottiglie colme di sangue nascoste in cantina e tini ribollenti di lumache francesi.
Approfondimenti sul libro
L’ebook di Verderame (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 7,99 euro.
Corrugato da solchi paralleli e regolari, il tegumento esterno era di un rossiccio che teneva del boleto: ciò che distingueva il nostro mollusco come lumaca rossa ovvero lumaca francese: piú tozza e piú chiara delle nostrali, con una sagoma piú vicina alla balena che al serpente, e corna piú corte e meno facili alla protrusione.
– Puàh! – fece il villano sputando sopra il cadaverino ma mancandolo di qualche centimetro. Poi ritrasse la vanga e ne passò la lama fra due dita, come a nettarla di una poltiglia che esisteva solo nella sua testa. – Lümàgh frances! – e nuovamente esplose un bolo di saliva che come il precedente scaracchio nessuna benedizione avrebbe trasformato in madreperla. – Lümàgh schifús vacaboia! – e finalmente si allontanava.
Io pure mi allontanavo, per tornare dopo qualche ora ad assistere al lavoro delle formiche, che coperti completamente i due monconi della lumaca ne suggevano la linfa riducendo la spoglia a fascio di fibre mummificate. Mi piaceva pensare a quegli esserini come all’equipaggio del Pequod impegnato nella lavorazione di un cetaceo, e da questo pensiero prendeva forma l’irresistibile immagine di una tremenda lumaca bianca piena di cicatrici, la lumaca della vendetta…
Peccato che il mio contadino non avesse nulla del capitano Ahab. Anzi lo caratterizzava qualcosa d’informe, cosí nella corpulenza perennemente insaccata nella stessa tuta bluastra come nel volto, complicato da una cicatrice che collegava il ciglio dell’occhio sinistro al ciglio del labbro, da una vasta voglia color vinaccia, e da tutti i porri il cui aggetto era bilanciato dalla cavità delle ulcere vaiolose. Segnatamente sconciato era il naso, bitorzoluto e spugnoso come quello di un cirrotico, e percorso da un reticolo di venuzze scure. Sgradevolmente lacrimosi aveva gli occhi, con le palpebre quasi incollate dalla resina come per una congiuntivite cronica: fenomeno che se non altro gli conferiva un’aria pensosa e concentrata, come di chi affisi il pensiero a metafisiche lontananze.
Dentro di me lo chiamavo l’uomo del verderame, perché di tutte le sue mansioni, che prevedevano la cura dell’orto e degli alberi, la manutenzione spicciola della casa, il taglio del prato, l’allevamento di galline e conigli, la preparazione e l’irrorazione del verderame era per un bambino la piú fascinosa. Lo vedevo spezzare stecche di verderame solido dentro un bidone di metallo, e ognuna di quelle schegge aveva la sinistra seduzione dei gessi colorati che furono fatali a Mimí, la «bimba sciocca» della canzoncina. Punizioni tremende, avessi solo sfiorato una di quelle schegge: pure, siccome egli le trattava a mani nude ritraendone un turchese che non solo gli tingeva la pelle ma gli si installava permanentemente sotto le unghie, i casi erano due: o il verderame non era cosí pericoloso, o davvero egli era un mostro. E a questa seconda ipotesi sempre fiducioso mi attenni.
Perché mi voleva bene, quell’essere, ed essere amato da un mostro è la migliore delle protezioni dall’orribile mondo. Certo si macchiava di atti nefandi come l’uccisione delle lumache o lo scuoiamento dei conigli, la cui cruenta pelliccia appendeva ai rami degli alberi senza alcun riguardo alla mia tenerezza: ma ero abbastanza intelligente da capire che a un mostro qualcosa si deve pur concedere. Mio nonno cercava di confondermi attribuendo l’eccidio dei molluschi alla necessità di preservar le lattughe, e il sacrificio dei conigli alla bontà degli umidi imbanditi dalla nonna: ma io sapevo che erano pretesti, che il mostro uccideva con piacere e con pompa e che questo solo contava, la sua barbara soddisfazione di carnefice; e del resto a qualificarlo per mostro bastavano i suoi disgustosi scaracchi, ai quali anche la speciosa dialettica del nonno non poteva trovare giustificazione.
Si sapeva poi quand’era nato, e dove? Cos’aveva fatto prima di lavorare per noi? Se aveva parenti? Qualcuno era mai entrato in casa sua, se casa era l’incognito spazio chiuso da un portoncino di legno grigiastro? Qualcuno l’aveva mai visto in un abito che non fosse quella tuta, identica nei decenni? Qualcuno poteva dire di averlo visto fare la spesa,o ricevere derrate a domicilio? E di cosa si nutriva? Beveva molto, evidentemente, ma c’era in tutto il paese una sola persona che potesse testimoniare dell’ingresso di una bottiglia attraverso quel portoncino? E finalmente, io avevo bisogno di un mostro, e questo decideva. D’altronde, non maneggiava impunemente il tremendo veleno?
Sciolto nell’acqua, il verderame formava una pasta densa, simile a quella che nelle fiere di una volta i caramellai torcevano come lottassero contro un pitone: cosí doveva rimanere alcuni giorni per «respirare», verbo che diceva fin troppo della vita di quella cosa. A tal fine, il bidone restava pericolosamente aperto: io entravo piú volte nella legnaia per controllare quella misteriosa attività respiratoria, e contemplando il meraviglioso turchese cercavo di non sporgermici sopra per paura delle esalazioni, una paura che mi confermavano gli insettini morti che sempre piú numerosi maculavano il colore.
Venuto il momento l’uomo versava la pasta dentro una grande vasca di graniglia, la cui presenza faceva sí che la legnaia fosse talvolta chiamata lavanderia, con una transitività che se sconcertava gli estranei era per me il segno della natura metamorfica e magica di quel luogo. Aggiunta molta acqua nella vasca egli «rügava», cioè mescolava con un bastone finché il liquido non fosse omogeneo. – Va’ Michelín, l’è cumpagn rügà la pulenta – mi faceva: poi sputava dentro la vasca e procedeva alla mescidazione come una macchina. Era solo un’abitudine, o quello sputo conteneva gli enzimi necessari alla buona riuscita dell’operazione, come uno di quegli ingredienti segreti su cui ogni brava cuoca costruisce la propria fama? Non seppi mai. Ottenuto il risultato prefisso, ecco che le sue mosse si facevano rapidissime: bisognava riempire il sifone prima che nella vasca la miscela «l’andass insemma», cioè, come con identico errore si dice della maionese, si dividesse. Cosí, inferto un ultimo e piú vigoroso giro di bastone, l’artefice prendeva l’enorme sifone di rame e lo immergeva finché fosse pieno; dopodiché lo chiudeva assicurandone il coperchio con due leve; dopodiché lo asciugava e lucidava con due diversi panni perché il verderame, mi aveva spiegato, non rovinasse il lucido del rame; dopodiché, sustoltolo alquanto, lo agitava come lo shaker mostruoso di un piú mostruoso barman; dopodiché vi applicava due larghe cinghie di cuoio a mo’ di spallacci, e come uno zaino della prima guerra effettivamente se l’incollava sul groppone: cosí carico faceva due o tre saltelli ad assestarselo meglio, quindi rimosso con destrezza un opercolo situato sul coperchio vi avvitava la ghiera di un tubo di gomma terminante in una punta metallica, anch’essa di rame, identica per proporzioni alle siringhe dei pasticceri, non fosse per una sottostante impugnatura ad anello che ricordava quella di un Winchester. Io a questo punto mi ero già allontanato di qualche metro perché sapevo cosa stava per accadere: puntato il tubo-siringa verso il nulla, l’officiante tirava a sé l’anello provocando lo spruzzo del verderame, prima restio e in forma di goccioline troppo grosse, poi finalmente nebulizzato e gagliardo. Irriferibili bestemmie uscivano dalla bocca dell’orco finché lo spruzzo non fosse di suo gradimento: al che, con tutto quel rame sulla schiena che mi ricordava i palombari del Nautilus, si girava verso di me e simulava irrorarmi facendo – Psssssss… – con la bocca, ma l’attimo dopo si era già dimenticato di me per essere tutto della sua mansione.
Due ore dopo l’intera vigna era costellata di macchioline turchesi, cosí fitte e concentrate da tingere talvolta un’intera foglia o mezzo grappolo. – E anca stavolta l’emm daa – bofonchiava il mio uomo, che rientrava nella legnaia-lavanderia per sciacquare il proprio strumento e svuotare la vasca: la quale tratteneva sulla sua superficie una gromma turchese che mi sembrava un delitto rimuovere, e che pure era regolarmente eliminata con una spatola metallica ed altra acqua.
Il verderame! Per anni fui convinto che quel nome meraviglioso fosse la somma meccanica del rame del sifone e del verde della vigna: invece lo stesso rame ci entrava per il colore che assume quando è ossidato o, come avrei scoperto da grande, quando è in forma di acetato.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Michele Mari.
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