Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Verdi colline d’Africa di Ernest Hemingway. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori, con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Verdi colline d’Africa: trama del libro
“Verdi colline d’Africa” (1935) racconta un safari che Hemingway fece in compagnia della moglie Pauline. Oltre a ritrarre con “precisione” e “verità” il mondo della caccia, Hemingway non rinuncia a conversazioni sull’arte dello scrivere e a riferimenti alla tradizione letteraria americana. Ne risulta un romanzo appassionante che, pur registrando fedelmente la realtà, ha il fascino di una creazione di fantasia. Un libro – per il “Times Literary Supplement” “che è espressione di una profonda gioia per la vita in Africa. II gioco della caccia è una parte intensa di quella gioia, ma c’è di più: il colore e l’odore del paese, la compagnia degli amici… e la sensazione che il tempo non conti più”.
Approfondimenti sul libro
In ebook Verdi colline d’Africa (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di euro 6,99.
«È finita» disse.
Mi portai la mano alla bocca e gli feci cenno di tacere.
«È finita» ripeté, e allargò le braccia. Non mi era mai piaciuto, e ora mi piaceva ancora meno.
«Più tardi» sussurrai. M’Cola scosse il capo. Guardai il suo cranio calvo e nero: egli girò un poco il viso, sì che scorsi i sottili baffi da cinese agli angoli della bocca.
«Niente da fare» sentenziò. «Hapana m’uzuri.»
«Aspetta un momento» gli dissi. Egli abbassò di nuovo la testa nascondendola fra i rami secchi, e restammo nella polvere della tana fino a che venne tanto buio da non poter distinguere il mirino del fucile. Ma non accadde nulla. Il battitore melodrammatico era impaziente e inquieto, un po’ prima che l’ultima luce se ne fosse andata bisbigliò a M’Cola che ormai era troppo tardi per sparare.
«Stai zitto, tu» gli disse M’Cola. «Il bwana può sparare anche quando tu non ci vedi più.»
L’altro battitore, quello istruito, diede un’ulteriore prova della sua istruzione graffiandosi il nome, Abdullah, sulla pelle nera della gamba con un rametto appuntito. Io lo guardai senza mostrare alcuna ammirazione e M’Cola osservò la parola scritta con una faccia assolutamente priva di espressione. Dopo un po’ il battitore cancellò tutto.
Provai a mirare ancora una volta contro quel poco di luce che durava e vidi che ormai era inutile, anche con l’apertura più larga.
M’Cola stava in attesa.
«Niente buono» dissi.
«Già» fece egli in swahili. «Torniamo all’accampamento?»
«Sì.»
Ci alzammo e ci avviammo, fuori dalla tana e fra gli alberi, camminando sulla terra sabbiosa e cercando una strada in mezzo alle piante e sotto i rami, verso la pista. La nostra macchina era a un chilometro e mezzo da lì, sulla strada, e come le giungemmo vicino, Kamau, il guidatore, accese i fari.
Quel camion aveva guastato tutto. Nel pomeriggio avevamo lasciato la macchina sulla strada e ci eravamo avvicinati al lick con ogni precauzione. Il giorno prima era piovuto un po’, ma non tanto da sommergere il lick, che era semplicemente una radura fra gli alberi con un pezzo di terra scavata in solchi circolari e una serie di buche lungo i bordi create dagli animali che avevano leccato nel fango in cerca di sale. Avevamo veduto le lunghe orme fresche a forma di cuore di quattro grandi kudu maschi che erano venuti al lick la notte avanti e orme più recenti di kudu meno grossi. C’era anche un rinoceronte che, a giudicare dalle impronte e dal cumulo di paglia e di sterco buttato all’aria con le zampe, doveva venire ogni notte. Il rifugio era stato costruito a tiro di fucile dal lick e io, seduto con la schiena curva, le ginocchia alte e la testa bassa, nella buca piena di cenere e di polvere, appostato tra le foglie secche e i rami fragili, avevo visto un kudu uscire dalla macchia, dirigersi alla radura dove c’era il lick e fermarsi: era grigio e bello, aveva il collo forte e le corna curve contro il sole; mirai al suo petto, ma rinunciai a sparare per non impaurire il kudu più grande che doveva venire al tramonto. Ma il kudu sentì il camion ancora prima di noi e scappò via fra le piante; ogni altro animale che si fosse mosso per venire al lick dalla boscaglia o dalla pianura o stesse scendendo frammezzo agli alberi delle piccole colline si doveva essere arrestato a quello sferragliare esplosivo. Sarebbero venuti in seguito, nel buio, troppo tardi per noi.
E ora ce ne andavamo in macchina lungo la pista sabbiosa, le luci dei fari sbattevano sugli occhi degli uccelli notturni che stavano accucciati nella sabbia sino a che la mole dell’auto giungeva quasi sopra di loro, e allora si levavano in volo mollemente, impauriti; e oltrepassavano i fuochi dei viaggiatori che di giorno si muovevano tutti verso occidente lungo questa strada, abbandonando le terre colpite dalla carestia che si stendevano dinanzi a noi. Io, seduto col calcio del fucile fra i piedi, la canna nella piega del braccio sinistro e una fiaschetta di whisky fra le ginocchia, ne versai in una tazza di latta facendola passare nel buio sopra le mie spalle a M’Cola perché vi versasse dell’acqua da una borraccia, e lo bevvi, il primo whisky della giornata, che è anche il migliore, e guardavo la fitta boscaglia nel buio, inspirando il fresco vento notturno e il buon odore d’Africa, felice.
Ed ecco che dinanzi a noi vedemmo un grande fuoco, e come passammo e procedemmo oltre, scorsi un camion a fianco della strada. Dissi a Kamau di fermare e tornare indietro, e mentre indietreggiavamo, vidi nella luce del fuoco un uomo piccolo e con le gambe storte, cappello tirolese, calzoncini di pelle e camicia aperta, fermo davanti a un motore scoperto, in mezzo a un nugolo d’indigeni.
«Serve niente?» gli chiesi.
«No» rispose. «A meno che lei non sia un meccanico. Mi ha preso in antipatia, tutti i motori mi hanno in antipatia.»
«Ha dato un’occhiata al distributore? Quando ci è passato davanti faceva un rumore come se dovesse trattarsi del distributore.»
«Dev’essere qualcosa di molto peggio. Era un rumore tutt’altro che promettente.»
«Se può venire sino al nostro accampamento, noi abbiamo un meccanico.»
«Quanto è lontano?»
«Circa trentadue chilometri.»
«Ci proverò domattina. Adesso ho paura a farlo proseguire con quel rumore di morte dentro la pancia. Ora sta cercando di morire perché mi ha preso in antipatia. Anch’io lo detesto, però se fossi io a morire a lui non gliene importerebbe un bel niente.»
«Vuol bere?» Gli tesi la fiaschetta. «Mi chiamo Hemingway.»
«Kandisky» rispose lui inchinandosi. «Hemingway non è un nome nuovo per me, ma dove diavolo l’ho udito? Ah, sì. Il “Dichter”. Lei conosce Hemingway il poeta?»
«Dove l’ha letto?»
«Sul “Querschnitt”.»
«Sono io» dissi compiaciuto. Il «Querschnitt» era una rivista tedesca per la quale avevo scritto delle poesie piuttosto oscene, e nella quale avevo pubblicato un lungo racconto, molto prima di riuscire a collocare un solo rigo in America.
«È molto strano» osservò l’uomo dal cappello tirolese. «E mi dica: di Ringelnatz che ne pensa?»
«È splendido.»
«Così Ringelnatz le piace. Bene. E di Heinrich Mann che ne pensa?»
«Non mi va.»
«Veramente?»
«So che non riesco a leggerlo, ecco tutto.»
«Non vale proprio niente. Vedo che abbiamo qualcosa in comune. E qui che sta facendo?»
«Vado a caccia.»
«Non d’avorio, spero.»
«No, di kudu.»
«Ma come mai c’è gente che va a caccia di kudu? Anche lei, che è un uomo intelligente, un poeta: uccidere dei kudu!»
«Non ne ho ancora ucciso uno» dissi. «Ma stiamo dando loro una caccia accanita da dieci giorni, e se non fosse stato per il suo camion, questa notte uno lo avremmo preso di sicuro.»
«Quel povero camion. Bisognerebbe andare a caccia per un anno di seguito: alla fine se ne sono ammazzati d’ogni sorta e ci rincresce di averlo fatto. È una sciocchezza voler andare a caccia di un animale solo. Lei perché lo fa?»
«Perché mi piace.»
«Naturale, se proprio le piace. Ma mi dica che ne pensa, sinceramente, di Rilke.»
«Non ho letto di lui che la solita cosa.»
«Quale?»
«L’alfiere.»
«Le piace?»
«Sì.»
«A me fa perdere la pazienza. È tutto snobismo. Valéry, sì, lo capisco, sebbene anche lì ci sia molto snobismo. Be’, perlomeno lei non uccide elefanti.»
«Se ne trovassi uno abbastanza grosso, lo ucciderei.»
«Di che peso lo vorrebbe?»
«Sui trenta chili, anche meno.»
«M’accorgo che vi sono delle cose su cui non andiamo d’accordo. Ma che piacere incontrarsi con uno del vecchio, glorioso gruppo del “Querschnitt”. E Joyce, mi dica, com’è? Non ho i soldi per comprarlo. Sinclair Lewis non è niente. L’ho comprato. No, no, me ne parlerà domattina. La disturba che io stia accampato qui vicino? Ha degli amici con lei, qualche cacciatore bianco?»
«Sono con mia moglie. Saremo felicissimi. C’è anche un cacciatore bianco.»
«Perché non è fuori con lei?»
«Dice che il kudu bisogna cacciarlo da soli.»
«Meglio ancora non cacciarlo affatto. Che cos’è, un inglese?»
«Sì.»
«Un insopportabile inglese?»
«Molto simpatico, anzi. Le piacerà.»
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore francese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Ernest Hemingway.
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