Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Vipera di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Vipera: trama del libro
Una nuova primavera si affaccia, e tenta uomini e donne con i suoi profumi, ma anche il male è nell’aria. Manca una settimana a Pasqua nella Napoli del 1932. Al Paradiso, esclusiva casa di tolleranza nella centralissima via Chiaia, Vipera, la prostituta più famosa, è ritrovata morta, soffocata con un cuscino. L’ultimo cliente sostiene di averla lasciata ancora viva, il successivo di averla trovata già morta. Chi l’ha uccisa, e perché? Ricciardi deve districarsi in un groviglio di sentimenti e motivazioni. Avidità, frustrazione, invidia, bigottismo. Amore. La scoperta di passioni insospettabili si accompagna alla rivelazione di una città molto diversa da come appare. Sotto i nostri occhi prendono forma, vivissimi e veri, illuminati da dettagli sorprendenti, sorretti da una genuina vocazione narrativa, i mercati, i vicoli, le strade, i mestieri, la rete rigogliosa dei commerci vecchi e nuovi, accanto alla vigliaccheria e al coraggio, alle violenze arroganti di chi pensa già di essere impunito per sempre perché indossa una camicia nera. Tanto che uno dei compagni di Ricciardi, il dottor Modo, vecchio estimatore di Vipera, finisce per cacciarsi in un guaio molto serio… E il romanzo, come non mai, sembra costruirsi da solo, sotto le mani abili di chi sa dosare e mescolare gli ingredienti più diversi, come accade nelle vere ricette del periodo pasquale di cui è insaporita la storia.
In ebook Vipera (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro. Qui potete trovare la lista di tutti i libri del Commissario Ricciardi.
Tu che lo vendi a due lire a incontro, cinque minuti per respirarti addosso, nemmeno il tempo di guardarti negli occhi, di mormorare il tuo nome, pensi di sapere che cos’è l’amore? Che ne sai tu delle lunghe attese, dei silenzi sospesi nell’ansia di una parola, di un sorriso?
Con questo tuo corpo morbido che adesso sento muoversi frenetico sotto di me, con queste gambe lunghe e bianche che stringono i miei fianchi, pensi che l’amore sia questo?
Io l’ho visto, sai, l’amore. L’ho conosciuto, l’ho incontrato. È fatto di dolore e di malinconia, di ansia e di ritorni. Non si consuma in un attimo; non nasce e muore in posti come questo, con la musica di un pianoforte al piano di sotto e nell’odore dei disinfettanti. L’amore è fatto di aria fresca e fiori, di lacrime e risate.
Tu, che mi pianti le unghie nella schiena e inarchi il bacino contro di me, pensi di conoscerlo ma non lo conosci, l’amore.
Tu fingi sempre, fingi anche il piacere che non provi. Fingi, con gli occhi bistrati di nero, la bocca disegnata a cuore, il neo sulla guancia. Tutto finto. Come gli abiti lussuosi di organdis, crêpe e voile imprimé, che qui dentro, nella cosiddetta casa dell’amore, puoi permetterti solo tu, come il profumo francese che appesta l’aria di questa stanza.
L’amore vero lo conosco io: ti sveglia di notte, col cuore pieno di speranza e disperato, coi pensieri che diventano sogni e i sogni che diventano pensieri. Non ha bisogno della musica dei negri, per farti scorrere il sangue piú veloce nelle vene, né del profumo per mescolarti i sensi.
Che mi risponderesti se ti chiedessi che cos’è l’amore, tu che gemi tra le mie mani, tu che premi il tuo seno contro di me?
Forse rideresti, come hai riso poco fa, coi tuoi denti bianchi e gli occhi neri, la mano sul fianco di seta; e mi diresti che l’amore è questo, la stanza di un bordello, reggiseni di pizzo, candele, raso, boa di piume di struzzo. Che l’amore è il lusso, il benessere, il non dover pensare a come procurarsi da mangiare. O forse mi diresti che l’amore dura poco, il tempo di una marchetta: e che il resto della vita si deve trascorrere campando meglio che si può.
Non temere, non te lo chiederò cos’è l’amore. Non aspetterò dalla tua bocca dipinta altre bugie. Mi accontenterò di sentire, come adesso, il tuo corpo caldo muoversi sotto la mia pelle, al ritmo del respiro. Sempre piú piano. Sempre piú piano.
E di non sentire piú i tuoi lamenti, sotto il cuscino che ti tengo in faccia.
I.
Fra la questura e Il Paradiso c’era qualche centinaio di metri, il pezzo finale di via Toledo e un tratto di via Chiaia. Ma l’ora era difficile: molta gente sui marciapiedi, i negozi aperti e l’aria dolce del primo pomeriggio di primavera a invogliare a una passeggiata. Ricciardi e Maione avanzavano a fatica nella folla, cercando di non perdere di vista la vecchia che li precedeva muovendosi sulle gambe storte con sorprendente agilità, seguiti dalle guardie Cesarano e Camarda che continuavano a scambiarsi occhiate complici. Avevano cominciato a farlo da quando Maione gli aveva comunicato l’indirizzo e non avevano piú smesso.
Ricciardi non si fidava della primavera. Non c’era di peggio dell’aria dolce, del profumo di bosco o di mare che il vento soffiava da Capodimonte o dal porto, delle finestre che si aprivano. Dopo l’inverno dei silenzi, delle vie gelide battute dalla tramontana, dei geloni e della pioggia fredda, le passioni hanno accumulato tanta di quell’energia distruttiva che non aspettano altro per eruttare il loro disordine.
Mentre si avvicinava all’angolo, dove la strada sfociava nella piazza Trieste e Trento e la gente si diradava, il commissario lasciò correre lo sguardo sulle decine di teste che affollavano lo spazio antistante il Caffè Gambrinus: giovani vestiti di chiaro, con i pollici nelle tasche dei panciotti e i cappelli all’indietro sulle nuche, conversavano in piccoli gruppi cercando di incontrare gli occhi delle signore che passavano in coppia, consapevoli dell’apprezzamento che era loro mancato nei tristi mesi precedenti. Qualcuno ripiegava sulle ragazze che servivano ai tavolini, posti finalmente all’aperto, apprezzandone le forme generose sotto i grembiuli. Gli ambulanti richiamavano l’attenzione sulla propria meravigliosa mercanzia gridando e fischiando. I bambini tiravano le gonne delle madri, chiedendo noccioline o palloncini. E poi automobili scoperte, carrozze, fisarmoniche.
Benvenuti in primavera, pensò Ricciardi. Niente è piú pericoloso di tutta quest’apparente innocenza.
Proprio dietro l’angolo c’era il vecchio morto suicida. Il commissario ci andò quasi a sbattere; fece uno scarto di lato e urtò una balia con una carrozzina, che lo guardò in cagnesco raddrizzandosi la cuffia per poi riprendere la marcia verso la Villa Nazionale. Ricordò il rapporto, di un paio di giorni prima: un professore di liceo in pensione, che aveva perso la moglie quell’inverno. Una mattina si era svegliato, si era vestito di tutto punto, aveva salutato la figlia con un bacio sulla fronte e si era avviato per la solita passeggiata. Arrivato in piazza, rivolto verso il caffè, aveva tirato fuori la pistola che conservava da quando era stato in guerra e si era sparato alla tempia. Il caso era stato rapidamente archiviato, c’era anche un biglietto di addio sulla credenza; ma il dolore del distacco era ancora là, sospeso nell’aria e perfettamente visibile per Ricciardi, in forma di un uomo di bassa statura ed esile, abbigliato in maniera dignitosa ma lisa, una giacca troppo grande le cui maniche lasciavano vedere solo la punta delle dita e una pistola. Il proiettile era entrato dalla tempia destra ed era uscito dalla fronte, aprendo la testa come un’anguria. Il terrore della morte imminente aveva indotto un fiotto di urina, che macchiava di umido il davanti del pantalone grigio. Sotto il sangue e il cervello che colavano sulla faccia, la bocca continuava a ripetere senza sosta: Il nostro caffè, amore mio, il nostro caffè, amore mio. Ricciardi si rivolse istintivamente verso il Gambrinus, di là dalla strada affollata: i tavolini brulicavano di vita e di umanità. Avrebbe percepito per giorni il dolore del vecchio, che non ce l’aveva fatta ad affrontare la prima bella stagione senza la compagna della sua vita. L’improvvisa fitta alla testa gli fece portare la mano alla cicatrice sulla nuca, ormai rimarginata. Magari potesse rimarginarsi anche la ferita della mia anima, pensò; quella che mi fa arrivare addosso il mormorio dei morti, la consapevolezza del loro dolore.
Annotò mentalmente di evitare quell’angolo e di passare dall’altra parte della via, nei giorni successivi. Almeno fino a quando l’eco della sofferenza del vecchio si fosse finalmente dissolta nell’aria fresca della nuova primavera.
Il brigadiere Raffaele Maione si faceva strada con difficoltà: la sua mole non gli consentiva di passare velocemente tra tutta quella gente, e il tepore improvviso dell’aria lo aveva colto di sorpresa con la pesante divisa invernale, per cui si sentiva sudato e appiccicoso. La vecchia invece gli pareva una ballerina, per come saltellava tra piedi e carrozzine, sparendo ogni tanto dalla vista per poi ricomparire qualche metro piú in là.
Non che Maione avesse bisogno di indicazioni, per trovare l’indirizzo del Paradiso. Era il casino piú famoso della città, quello per i ricchi, le cui finestre oscurate affacciavano sulla via del passeggio e sui negozi piú cari, dal quale veniva la musica del pianoforte e il suono delle risate dei clienti, e i passanti facevano l’espressione scandalizzata o divertita ma sempre un po’ invidiosa.
La vecchia era giunta in questura trafelata. Era la guardiana del bordello, una vera istituzione, nota in tutto il quartiere per la forza delle braccia che contrastava con l’aspetto minuto e le consentiva di svolgere un attento servizio d’ordine, gettando per strada clienti ubriachi e molesti che non volevano saperne di andarsene quando il loro tempo si era concluso. Si chiamava Fusco Maria, detta Marietta ’a guardaporte, e si era rifiutata di parlare con l’appuntato in servizio, pretendendo di parlare con il brigadiere per denunciare «’o fatto che è succieso»; Maione l’aveva incontrata in un paio di occasioni e si era guadagnata la ruvida stima della donna. Quando se l’era trovata davanti, aveva capito che era davvero turbata: le guance arrossate, il fiato corto, il volto disperato.
– Brigadie’, dovete correre, mo’ mo’. È successo un fatto terribile.
Maione era riuscito a estorcere a Marietta solo che si trattava di un omicidio, per cui aveva mandato a chiamare Ricciardi, aveva fatto un cenno a Camarda e Cesarano e si era lanciato all’inseguimento della vecchia.
Continuando a camminare velocemente, tirò fuori l’orologio dal taschino. Le quattro. L’attività del casino doveva essere cominciata. Chissà quanta gente c’era, nella bella sala del Paradiso, ad ascoltare musica e a guardare il passeggio delle signorine discinte sul balconcino, in attesa della scelta.
All’improvviso la folla si diradò come se si fosse aperta una voragine per strada, e i quattro poliziotti si ritrovarono davanti all’ingresso. Marietta li aspettava sulla soglia, impaziente. Dall’altro lato della via, l’immancabile assembramento di curiosi, le teste verso le finestre chiuse e coperte dalle tende, il mormorio dei commenti e delle illazioni, il darsi di gomito all’arrivo della pubblica sicurezza. Maione sentí una risatina femminile, che cessò subito quando rivolse da quella parte il viso accigliato. La morte era la morte: esigeva rispetto, dovunque e comunque si presentasse.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
Come Ricciardi nessuno. Peccato sia sparito! Maurizio hai risvegliato visioni della mia famiglia napoletana. Grazie. Ho letto tutto. I bastardi anche mi piacciono ma Ricciardi è perfetto. Il 26 febbraio compirò 78 anni. Ho bisogno di auguri
Tantissimi auguri Diana!
Un caloroso abbraccio da tutta la redazione.