Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Una vita da libraio di Shaun Bythell. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 19,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Una vita da libraio: trama del libro
Dal cliente che entra per complimentarsi dell’esposizione in vetrina, senza accorgersi che le pentole servono a raccogliere la perdita d’acqua dal tetto, alla vecchietta che chiama periodicamente chiedendo i titoli più assurdi, alle mille, tenere vicende di quanti decidono di disfarsi dei libri di una vita. The Book Shop, la libreria che Shaun Bythell contro ogni buonsenso ha deciso di prendere in gestione, è diventata un crocevia di storie e il cuore di Wigtown, villaggio scozzese di poche anime. Con puntuta ironia, Shaun racconta i battibecchi quotidiani con la sua unica impiegata perennemente in tuta da sci, e le battaglie, tutte perse, contro Amazon. La sua è l’esistenza dolce e amara di un libraio che non intende mollare.
Approfondimenti sul libro
Una vita da libraio è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Mi piacerebbe fare il libraio di professione? Tutto sommato – nonostante il proprietario mi trattasse gentilmente e nonostante alcuni giorni felici trascorsi in quella libreria – direi di no.
GEORGE ORWELL, Ricordi di libreria; Londra, novembre 1936.
George Orwell non aveva nessuna voglia di fare il libraio, e devo dire che lo capisco benissimo. Lo stereotipo del libraio insofferente, intollerante e misantropo (come il personaggio interpretato da Dylan Moran nella serie televisiva Black Books) trova spesso conferma nella realtà. Ci sono le immancabili eccezioni, ovvio, e molti colleghi di mia conoscenza non sono affatto cosí: io sí, purtroppo. Ma un tempo ero diverso, e prima di comprare la libreria ricordo di essere stato un tipo abbastanza disponibile e amichevole. Se oggi sono quel che sono, è colpa del quotidiano bombardamento di domande idiote, dell’incertezza finanziaria, delle eterne discussioni con il personale, dell’infinito, sfiancante mercanteggiare dei clienti. Eppure, se qualcuno mi chiedesse cosa vorrei cambiare, la risposta sarebbe: niente.
La prima volta che vidi il Book Shop avevo diciott’anni: ero appena tornato a Wigtown, ma sarei ripartito poco dopo per andare all’università. Ho un ricordo chiarissimo di me che passo davanti alla libreria insieme a un amico e pronuncio la seguente frase: «Scommetto che chiude prima di gennaio». Dodici anni piú tardi, durante le vacanze di Natale, ci entro per chiedere se hanno una copia di Le tre febbria di Leo Walmsley, e chiacchierando con il proprietario gli racconto che sto facendo una gran fatica a trovare un lavoro che mi piaccia. Invece lui non vedeva l’ora di andare in pensione: e se l’avessi comprato io, il suo negozio? Dissi che non avevo soldi. «Mica ti servono, i soldi: che ci stanno a fare le banche?» replicò il libraio. E cosí il primo novembre del 2001, a trentun anni e un mese, sono diventato il nuovo proprietario del Book Shop. Forse, prima di decidermi al grande passo, avrei fatto bene a leggere Ricordi di libreria, il breve saggio del 1936 in cui George Orwell racconta la sua esperienza in una libreria di Hampstead. Suona tutto vero, oggi come allora, ed è un salutare avvertimento per gli illusi come me: vendere libri usati non vuol dire starsene seduti in pantofole, i piedi sul pouf e la pipa in bocca a leggere Declino e caduta dell’Impero romano accanto a un caminetto crepitante, in un viavai di clienti deliziosi che ti impegnano in brillanti conversazioni e se ne vanno dopo aver sganciato fasci di banconote. Al contrario: la verità è quanto di piú diverso si possa immaginare. Tra le tante osservazioni contenute nel saggio di Orwell, ce n’è una che mi sento di condividere in pieno: «Molti dei nostri acquirenti appartenevano a quella categoria di persone che, pur essendo capaci di rendersi insopportabili ovunque, riescono a farlo particolarmente bene in una libreria».
George Orwell lavorò part time al Booklover’s Corner del quartiere londinese di Hampstead tra il 1934 e il 1936, mentre scriveva Fiorirà l’aspidistra. Il suo amico Jon Kimche racconta che lo scrittore sembrava infastidito dall’idea stessa di dover vendere qualcosa a chicchessia: stato d’animo certamente condiviso da molti librai. Per meglio illustrare le analogie – e le numerose differenze – tra la vita da libraio ai giorni nostri e ai tempi di Orwell, ogni mese di questo diario sarà introdotto da una breve citazione da Ricordi di libreria.
La Wigtown della mia infanzia era una cittadina vivace. Io e le mie due sorelle minori siamo cresciuti in una piccola azienda agricola a un chilometro e mezzo da quella che a noi, abituati alle paludi costiere e ai prati punteggiati di pecore, sembrava una fiorente metropoli. In realtà Wigtown conta meno di mille abitanti e si trova nel Galloway, la regione dimenticata che occupa l’angolo sudoccidentale della Scozia. È un paesino incastonato fra tondeggianti colline moreniche all’estremità della penisola di Machars (dal gaelico machair, nome che indica le pianure erbose e fertili lungo le coste nordoccidentali della Scozia e dell’Irlanda), la quale racchiude nei suoi sessantaquattro chilometri di costa i paesaggi piú vari, dalle spiagge di sabbia alle coste alte, rocciose e traforate di grotte. A nord si trovano invece le Galloway Hills, l’area magnifica e pressoché disabitata in cui corre il tratto occidentale della Southern Upland Way, il sentiero pedonale che attraversa serpeggiando tutto il Sud della Scozia, dall’Atlantico al mare del Nord. Al centro dell’abitato di Wigtown c’è un’imponente costruzione in stile neorinascimentale che un tempo ospitava gli uffici della contea e che ora viene utilizzata come centro civico. L’economia locale è stata sorretta per anni da una cooperativa casearia e dalla distilleria di whisky Bladnoch, la piú meridionale della Scozia: due attività che nel complesso assorbivano gran parte della forza lavoro locale. A ciò si aggiunga che un tempo l’agricoltura offriva molte piú opportunità rispetto a oggi, contribuendo a innalzare i tassi di occupazione sia nel paese, sia nelle aree circostanti. Ma poi, nel 1989, il caseificio chiuse i battenti causando la perdita di centoquarantatre posti di lavoro; la distilleria, avviata nel 1817, cessò ogni attività nel 1993. Ciò produsse grandi trasformazioni nell’economia del paese: dove c’erano stati un ferramenta, un fruttivendolo, un negozio di articoli da regalo, un negozio di calzature, una pasticceria e un hotel, per qualche tempo non ci furono che porte chiuse e vetrine sprangate da assi.
Negli ultimi tempi, tuttavia, sembra essere tornata una certa qual prosperità, e con essa un rinnovato ottimismo. Poco alla volta gli spazi lasciati liberi dalla scomparsa del caseificio sono rinati a nuova vita grazie alle piccole imprese: una bottega di maniscalco, uno studio di registrazione, una fabbrica di stufe. Nel 2000 la distilleria ha riaperto i battenti per dare inizio a una produzione su scala ridotta, sotto l’egida appassionata dell’imprenditore nordirlandese Raymond Armstrong. Anche l’area urbana di Wigtown ha beneficiato di una congiuntura piú favorevole, e oggi ospita una vivace comunità di librai e librerie. Le vetrine sono state liberate dalle assi, e dietro le porte dei negozi ora nuovamente aperti operano molte piccole imprese commerciali.
Chiunque abbia lavorato in una libreria sa bene che le interazioni tra clienti e gestori forniscono materiale piú che bastevole per un libro, come ampiamente dimostrato da Cose strane che si dicono in libreria di Jen Campbell: e cosí, essendo afflitto da una memoria terribile, un bel giorno anch’io ho cominciato ad annotare quel che succedeva in negozio, come una sorta di promemoria per un ipotetico progetto di scrittura. Se la data di inizio di questo diario vi sembra arbitraria, è perché in effetti lo è: l’idea di prendere appunti mi è venuta il 5 di febbraio, e strada facendo il promemoria è diventato un diario.
Mercoledí 5 febbraio.
Ordini online: 5
Libri trovati: 5
Alle nove e venticinque mi telefona un tizio dal Sud dell’Inghilterra che sta pensando di comprare una libreria in Scozia. Chiede a me quanto potrebbe valere, considerato che ha ventimila titoli in magazzino. Trattengo la risposta piú ovvia («Ma sei MATTO???») e domando invece quanto gli hanno chiesto. Ipotizzando un prezzo medio di sei sterline a volume, l’attuale proprietaria vorrebbe un terzo di quella somma (centoventimila diviso tre, ovvero quarantamila sterline). Gli dico che la cifra andrebbe divisa almeno per dieci, se non per trenta. Di questi tempi è pressoché impossibile spostare grandi quantitativi di libri: quasi nessuno è disposto ad accollarseli, e i pochi che lo fanno pagano un’assoluta miseria. Ormai le librerie dell’usato sono rare, ma in compenso c’è grande abbondanza di scorte: di conseguenza sono gli acquirenti a fare il mercato. Nel 2001, quando ho comprato il Book Shop, le cose andavano un po’ meglio, ma il precedente proprietario aveva comunque valutato a trentamila sterline il suo magazzino di ben centomila volumi.
Oltre ai Ricordi di libreria di Orwell, un’altra lettura che forse avrei dovuto consigliare all’aspirante libraio è lo straordinario Il libraio fallito ha altro da dire di William Young Darling. Entrambe le opere sono indicatissime per chiunque abbia in mente di fare questo mestiere. In verità Darling non era un libraio fallito ma un ex venditore di stoffe di Edimburgo, abilissimo nel convincere i lettori della reale esistenza del suo personaggio. I dettagli sono di una precisione non comune. Il libraio immaginario di Darling è «trascurato, malaticcio, ai limiti del trasandato, una figura umana priva di qualsivoglia interesse; se provocato, tuttavia, è capace di parlare di libri con un’eloquenza che non teme rivali»: in breve, un impeccabile ritratto del venditore di libri usati.
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