Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Le vite potenziali di Francesco Targhetta. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori, con un prezzo di copertina di 19,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto).
Le vite potenziali: trama del libro
Al centro di questo romanzo ci sono tre vite, tre visioni del mondo, tre modi diversi e complementari di sopravvivere alla contemporaneità. Il loro spazio è la Albecom, azienda informatica che sorge alla periferia di Marghera; l’ha fondata, ancora giovanissimo, Alberto, «trentaquattro anni, apprezzata abilità nell’assemblare mobili Ikea, una passione per la buona tavola e il culto della chiarezza». Tra i programmatori che lavorano per lui c’è Luciano, con cui Alberto condivide l’amore per internet fin dai tempi del liceo. Ma, a differenza dell’amico, Luciano si trova a suo agio dietro le quinte: schivo e paralizzato dalla propria scarsa avvenenza, si rifugia nel lavoro e nel rifocillamento dei gatti randagi di Marghera, tormentato solo, di tanto in tanto, dal desiderio di avere qualcuno da rendere felice. A completare il triangolo c’è Giorgio, il pre-sales dell’azienda, procacciatore di nuovi clienti: «percorso da un brivido di elettricità sempre», tiene nel cruscotto della macchina «L’arte della guerra» di Sun Tzu, che consulta come un oracolo. E così, mentre Luciano allaccia con Matilde, barista della tavola calda di fronte alla Albecom, un’amicizia presto caricata di nuove speranze e Giorgio riceve una proposta sottobanco da un vecchio collega, le giornate dei tre amici si intrecciano in un groviglio di segreti e tradimenti che si dipana tra la provincia veneta e le città di mezza Europa e che li costringerà, infine, a compiere scelte sofferte e decisive.
Approfondimenti sul libro
Le vite potenziali è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Da un po’ di tempo il sacello mariano, noto anche come “Chiesetta dell’Agip”, era stato riconvertito a luogo di rifocillamento per gatti: su uno scalino davanti all’ingresso, tra qualche foglia secca e dépliant stracci di ipermercati, erano posate alcune ciotole con acqua e croccantini. Solo una volta, durante una passeggiata in pausa pranzo, Luciano aveva visto un felino avvicinarsi all’uscio, ma tanto gli era bastato per convincersi che contribuire al riempimento delle scodelle fosse un gesto nobile, un modo per migliorare il mondo dove a nessuno sarebbe venuto in mente di farlo. L’assenza di altre persone che camminassero da quelle parti garantiva che nessuno potesse guardarlo: dove non ci sono occhi, non c’è spazio per la vergogna, e Luciano tendeva a provarne un po’ quasi sempre.
Anche quel giorno ne avvertì un refolo sotto forma di senso di inferiorità, allorché lesse su un avviso appeso alla porta del tempietto che i muri interni erano ricoperti dall’elenco dei morti sul lavoro al Petrolchimico. Al solo pensiero di quei nomi incisi sui mattoni in cotto, tra una stazione della Via Crucis e un candelabro elettrico, Luciano sentì il peso della loro fatica di amianto, moltiplicata dall’accostamento con il calvario – due dolori ugualmente remoti, verso cui provava quel misterioso rispetto che sempre esigono le forme pionieristiche di tragedia. Accostato al loro, il suo mestiere sembrava un passatempo. “Chissà se i programmatori possono morire sul lavoro” pensò, chinandosi: infarto, aneurisma, ictus, ma perché non l’esplosione di una macchina, un cortocircuito letale, il crollo del soppalco per un eccessivo accumulo di fotocopiatrici? E allora il suo nome si sarebbe aggiunto agli altri: “Luciano Foresti, contratto a tempo indeterminato alla Albecom di via delle Industrie”.
Non era la prima volta che si ritrovava a fantasticare sul proprio epitaffio. Scacciò il pensiero con uno sbuffo dal naso, per poi rovesciare di getto le crocchette nella ciotola, producendo un rumore nervoso subito ricoperto dallo sferragliamento di un treno veloce che fuggiva dalla laguna.
La Albecom era stata fondata ed era presieduta da Alberto Casagrande, trentaquattro anni, capelli castani, statura media, qualche ruga incipiente attorno agli occhi, apprezzata abilità nell’assemblare mobili Ikea, una particolare passione per la buona tavola – mascherata dall’ottima linea (“costituzione”) – e il culto della chiarezza.
Quel pomeriggio, al rientro dalle vacanze pasquali, Alberto aveva fissato una riunione orientativa per il trimestre alle porte con tutti i responsabili delle business unit che lavoravano ai singoli progetti: “Quarterly steering meeting”, c’era scritto nell’oggetto della mail con cui li aveva convocati per le due sul soppalco della sede Albecom. I lunghi neon già accesi incombevano dal soffitto, sopra il quale si trovava il parcheggio per i dipendenti del Vega, il polo tecnologico di Marghera: seduti al tavolo modulare color tabacco, gli Albecom si sentivano in alto, eppure avevano macchine sopra le loro teste.
Ad Alberto i discorsi motivazionali non piacevano: la sua energia era sempre stata una dimostrazione sufficiente di come dovrebbe funzionare la vita. Sapeva che non tutti ricevevano in sorte quella carica, ma confidava nel talento imitativo di cui da sempre sono dotati gli animi deboli, ossia il novanta per cento dei suoi dipendenti. E però da qualche tempo la loro debolezza aveva trovato un modo nuovo, per quanto non sorprendente, di manifestarsi: la fuga.
«Allora, sapete che anche Fulvio se ne è andato. Ora vedremo cosa fare con Staedtler. Il dettaglio lo si risolve sempre. A me preoccupa il quadro generale» esordì, accordando il tono assertivo sulla frequenza di chi non è ostile agli altri ma semplicemente sicuro di sé. «Così non va. Assumiamo personale, lo formiamo, gli passiamo competenze e poi lo lasciamo andare via.»
Alberto sapeva che per adescare un giovane programmatore bastava prospettargli il dieci per cento in più in busta paga, e quella era l’offerta economica proposta dalle nuove aziende informatiche che nascevano ovunque attorno ad Albecom e che attuavano le stesse strategie dei supermercati appena aperti: grandi lusinghe iniziali destinate poi a un progressivo torpore. Ma quel movimento di uomini cominciava a superare la soglia fisiologica e a suggerire la presenza di qualche problema: quale?
«La retention è un punto chiave. I nostri dovrebbero dire: “Duecento euro in più? Chissenefrega! Preferisco rimanere qua”.» Si fermò, dimenticando di guardare negli occhi qualcuno come era solito fare durante le riunioni, finché, piuttosto che macerarsi su quel dato inesplicabile secondo cui la gente attorno a lui continuava ad andarsene, preferì dedicarsi alle notizie positive.
Rialzò lo sguardo: il kick-off dei nuovi progetti, altre gare a cui partecipare con buone chance di vittoria, il sistemista in prova di cui tutti erano soddisfatti, i numeri che crescevano sempre. Tutto andava bene, ma quell’unica stortura aveva l’effetto di mettere in discussione che tutto andasse bene: non se ne usciva. Appena Alberto sciolse la riunione e rimase da solo con il proprio telefono, ripensò al pranzo e al comportamento di Luciano: al di là del sacchetto di Purina che aveva tenuto accanto a sé sulla panca del ristorante, c’era qualcosa, attorno alla sua imperturbabile precisione, che cominciava a insospettirlo. Il progetto Borghi, appena andato live sotto la guida di Luciano, era filato liscio: c’era stato, come d’abitudine, qualche intoppo nel caricamento delle foto degli articoli, ma senza che ne derivasse alcuna emergenza. Tutto, quando c’era Luciano, era sotto controllo. Se da un lato Alberto non poteva che compiacersene, dall’altro temeva l’effetto narcotico di quel suo apparente equilibrio; temeva, di più, che dietro quella fredda esattezza si nascondesse il germe della disaffezione. Avrebbe dovuto tenerlo d’occhio: non poteva andarsene anche lui.
D’altronde, però, si diceva, non ne era il tipo: Alberto lo frequentava fin dal liceo e ormai lo conosceva più di chiunque altro. Il loro legame era nato in occasione di una gita alle chiese romaniche del centro di Treviso. Nella sala del capitolo di san Nicolò, dentro il seminario vescovile, gli studenti furono invitati a cercare la raffigurazione di Ugo di Provenza, primo uomo a essere rappresentato con un paio di occhiali. Nel ciclo dipinto da Tomaso da Modena a metà ’300, tra decine di monaci che occupano le rispettive celle in atto di studio o preghiera, non era facile individuarlo: lo si poteva confondere con il cardinale di Rouen, che impugna una lente di ingrandimento, o con gli altri dotti confratelli ormai sbiaditi dal tempo, ritratti mentre leggono o trascrivono manoscritti. Quando la professoressa di storia dell’arte aggiunse un altro particolare per aiutare gli studenti a scovarlo (“Dài, è facile: è anche un po’ ingobbito”), fu Zanatta, il belloccio della classe, ad abbracciare Luciano al grido di “Eccolo!”, alzandone in trionfo gli occhiali rotondi dalla montatura argentata, che brillarono a una lama di sole. Alberto non rise meno degli altri, ma avvertì con un senso di disagio che qualcosa di forte lo accomunava a Luciano, qualcosa da cui bisognava difendersi e guardarsi bene.
E così la vista di Alberto negli anni non si era mai offuscata; non a caso era uno dei pochi, nella sua azienda, a non portare gli occhiali.
La questione della chiarezza era, per Alberto, ereditaria: sua madre, che aveva lavorato per anni nella fioreria di Sambughè, per lo più in nero, e ugualmente suo padre, che negli anni ’70 aveva trovato impiego in uno studio assicurativo di Istrana, con lui e la sorella avevano sempre usato lo strumento della più totale e didascalica sincerità: per spiegare come funzionano la vita, la lavastoviglie, il sesso, il lavoro. Mentre Silvia, la sorella, non senza darsi l’impressione di essere una fuggitiva, si era trasferita ancora giovane in Australia, dove i Casagrande avevano parenti (“Vedi se almeno lì trovi la tua strada”, e la trovò), Alberto aveva accettato di essere colui che, in famiglia, avrebbe messo ordine alle cose. Sapere come funziona tutto, pensava, deve servire a questo. Ben presto, infatti, si ebbe bisogno di lui, perché la vita, ai suoi genitori, si era piuttosto complicata, tra litigi e bugie nascoste male, e così Alberto comprese come invecchiare significhi, tra le altre cose, non saper più mettere in pratica su di sé ciò che si è trasmesso agli altri.
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