Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Una voce di notte di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99 ed è il ventesimo tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
Una voce di notte: trama del libro
Un torpore inerte ha invaso il commissariato di Vigàta: un tedio strascicato. Ammortisce pure il trallerallera di Catarella, che adesso incespica tra rebus e cruciverba. Montalbano legge un romanzo di Simenon, e distratto va sfogliando una vecchia annata della “Domenica del Corriere”: al telefono continua il dai e ridai querulo e molesto della suscettibile fidanzata, lontana sempre, lontanissima. Eppure un diversivo c’era stato. Due anziani bigotti, fratello e sorella, a furia di preterìe e giaculatorie, avevano rincappellato pazzia sopra pazzia. La loro demenza era arrivata al fanatismo delle armi. E la sceriffata santa aveva lasciato sul campo uno strumento di passioni tristi e appassite: una bambola gonfiabile, disfatta dall’uso; una di quelle pupazze maritabili che (diceva Gadda) tu le “basci, e ci piangi sopra, e speri icchè tu voi. E, fornito il bascio, te tu la disenfi e riforbisci e ripieghi e riponi, come una camiscia stirata”. Un’altra bambola gemella, ugualmente disfatta, ma data per cadavere di giovane seviziata, era stata trovata poi in un cassonetto della spazzatura, in via Brancati. Sembrò una stravaganza.
- Per altri dettagli rimandiamo alla scheda completa di Una voce di notte su Amazon.
- Qui potete leggere le recensioni dei lettori su Amazon.
Si susì, annò a rapriri le pirsiane, taliò fora.
Mari carmo, ’na tavola, e un celo sireno, cilestre con qualichi nuvoletta bianca che pariva pittata da un pittori dilettanti e mittuta lì per fari billizza. ’Na jornata ’n definitiva anonima che gli piacì propio per questa mancanza di carattiri.
Pirchì ci sunno certe jornate che t’impongono fino dal primo lumi d’alba la loro forti pirsonalità, e tu non puoi fari autro che calari la schina, sottomittiriti e sopportari.
Sinni tornò a corcari, ’n ufficio non avivano travaglio epperciò se la potiva pigliare commoda.
Aviva ’nsognato?
In qualichi rivista aviva liggiuto che si sogna sempri e se ci pare di non aviri ’nsognato è pirchì, arrisbigliannosi, quello che ci siamo ’nsognato ce lo scordiamo.
E forsi ’sta perdita del ricordo del sogno era dovuta macari all’età: ’nfatti, fino a un certo punto della sò vita, appena che rapriva l’occhi, i sogni fatti gli tornavano ’n testa ’mmidiati e lui se li vidiva passare davanti tutti ’n fila come al ginematò. Po’ aviva dovuto accomenzare a sforzarisi per arricordarseli. Ora ’nveci se li scordava, punto e basta.
La dormuta nell’urtimi tempi era addivintata lo stisso di sprufunnari dintra a ’na palla nìvura come pici, privato dei sensi e del ciriveddro. Praticamenti, addivintare un catafero.
E allura che viniva a diri?
Che ogni arrisbigliata sarebbi stata da considerari come ’na resurrezioni?
’Na resurrezioni che, nel caso sò pirsonali, ’nveci della sonata delle trombe aviva, nel novanta per cento delle volte, la voci di Catarella?
Ma semo sicuri che le trombe ci trasino con la resurrezioni?
O quelle servono sulo per accompagnari il giudizio universali?
Ecco: in questo priciso ’ntifico momento erano le trombe che stavano sonanno o era lo squillo del tilefono?
Taliò il ralogio, ’ndeciso se annare ad arrispunniri o no. Le setti.
Annò ad arrispunniri.
Ma nel priciso momento nel quali la sò mano dritta si stava posanno supra alla cornetta, la mano mancina, di testa propia, senza che nisciuno le aviva ordinato nenti, s’addiriggì verso la spina, la staccò dal muro. Montalbano ristò tanticchia ’mparpagliato a taliarla.
Vabbeni che non aviva gana di sintiri la voci di Catarella che gli annunziava l’omicidio quotidiano, ma era quello il modo di comportarisi di ’na mano? Come si spiegava quel gesto d’indipinnenza?
Potiva essiri che nelle vicinanze delle vicchiaglie le sò parti del corpo pigliavano ’na certa autonomia?
Allura sarebbi addivintato un probbrema macari caminare, con un pedi che voliva annare da ’na parti e l’autro da ’n’autra.
Raprì la porta-finestra, niscì nella verandina e s’addunò che il solito piscatori matutino, il signor Puccio, era già tornato a ripa e aviva appena finuto di tirari la varca ’n sicco.
Scinnì nella pilaja in mutanne com’era, gli s’avvicinò.
«Com’è annata?».
«Dottori mio, oramà i pisci se la fanno al largo. L’acqua vicino alla ripa è troppo ’nquinata dalle fitinzie nostre. Picca robba pigliai».
Calò ’na mano nel funno della varca, la tirò fora riggenno un purpo di ’na sittantina di cintilimetri.
«Ci l’arrigalo».
Era un grosso polipo, sarebbi abbastato per quattro pirsone.
«No, grazie, che me ne faccio?».
«E che sinni devi fari? Se lo mangia alla mè saluti. Abbasta farlo abbolliri a longo. Però ci deve diri alla sò cammarera che prima devi batterlo con una canna per farlo addivintari morbito».
«Grazie veramente, ma…».
«Se lo pigliasse» ’nsistì il signor Puccio.
Se lo pigliò, tornò verso la verandina.
A mità strata sintì ’na forti fitta di dolori al pedi mancino. Il purpo, che già tiniva ’n mano con difficortà, gli sciddricò, cadì supra alla rina. Santianno, Montalbano isò la gamma e si taliò il pedi.
Sutta alla pianta aviva un taglio che pirdiva sangue, se l’era fatto col coperchio di ’na lanna di pummadoro arruggiuta, ghittata ’n terra da qualichi garruso e figlio di cajorda.
Certo che i pisci si tinivano lontano! Oramà le pilaje erano addivintate succursali delle discarriche e le coste tutto uno sbocco di fogne.
Si calò, agguantò il purpo, si misi a corriri verso casa zoppichianno. L’antitetanica l’aviva fatta, ma era sempri meglio quatelarsi.
Si diriggì ’n cucina, ’nfilò il purpo dintra al lavello, raprì il cannolo dell’acqua per puliziarlo dalla rina che gli si era ’mpiccicata supra nella caduta, spalancò le pirsiane, si spostò ’n bagno, si disinfittò a longo la firita con l’alcol, cosa che lo fici santiare per l’abbrusciore, ci applicò supra ’na striscia di sparatrappo.
Ora sintiva urgenti il bisogno di un cafè.
’N cucina, mentri che stava a priparari la cafittera, accomenzò a provari un certo disagio che non sapiva spiegarisi.
Rallentò i movimenti per circari di capiri quali che ne era la scascione.
E tutto ’nzemmula fu certo di ’na cosa: che dù occhi erano fermamenti puntati supra di lui.
C’era qualichiduno che lo stava a taliare fisso da fora della finestra della cucina.
L’occhi di qualichiduno che non parlava, che lo taliava muto e che perciò non aviva di sicuro bone ’ntinzioni.
Che fari?
La prima cosa era di non farigli accapiri che sinni era addunato. Friscanno il valzero della Vidova allegra, addrumò il gas, ci misi supra la cafittera. L’occhi se li sintiva sempri darrè alla nuca come le canne di un fucili.
Aviva troppa spirenzia per non accapiri che quella taliata, accussì ferma, accussì minazzosa, non potiva che essiri d’odio profunno, la taliata di qualichiduno che lo voliva morto.
Si sintì la pelli sutta ai baffi vagnata di sudori.
Lentamenti la sò mano dritta s’era avvicinata a un grosso cuteddro di cucina, l’agguantò stringenno forti il manico.
Se quello fora dalla finestra era armato di revorbaro, gli avrebbi sparato appena che si votava.
Ma non aviva scelta.
Si votò di scatto mentri contemporaneamenti si ghittava a panza ’n terra.
Si fici mali, il botto della caduta provocò un tintinnio dei vitri della cridenza e dei bicchieri che ci stavano dintra.
Ma non ci fu nisciuno sparo pirchì fora dalla finestra non c’era nisciuno.
Però questo non stava a significari nenti, raggiunò il commissario, era macari possibbili che l’autro aviva riflessi pronti assà e non appena l’aviva viduto principiare a cataminarisi, si era ghittato fora di vista.
Ora era cchiù che certo che quello sinni stava calato sutta alla finestra aspittanno la sò prima mossa.
Avvertì che il sò corpo, oramà tutto sudatizzo, era ’mpiccicato supra al pavimento.
Principiò a susirisi a lento, con l’occhi fissi al riquatro di celo tra le pirsiane, pronto a scattari contro all’avvirsario volanno fora dalla finestra stissa, come fanno i poliziotti delle pillicule miricane.
Finalmenti fu addritta e ’na rumorata ’mprovisa alle sò spalli lo fici per un attimo appagnare come un cavaddro. Po’ accapì che era il cafè che passava.
Fici quatelosamenti un passo avanti e verso dritta.
Fu accussì che nel margini estremo del sò campo visivo trasì il lavello.
Di colpo si sintì aggilari.
Tinennosi coi tintacoli supra alla lastra di màrmaro allato al lavello c’era il purpo, immobili, che lo taliava minazzevole.
In un vidiri e svidiri a Montalbano parse ’na vestia enormi, àvuta minimo un dù metri, pronta ad attaccarlo.
Ma non ci fu battaglia.
Montalbano fici ’na gran vociata di scanto, satò narrè atterrito, sbattì contro la machina del gas, la cafittera s’arrovisciò, quattro o cinco gucce bollenti gli abbrusciaro la schina, sempri vocianno come un pazzo corrì fora dalla cucina, percorrì il corridoio in preda a uno scanto incontrollabbili, raprì la porta per scapparisinni fora dalla casa e travolgì ad Adelina che stava trasenno.
Cadèro tutti e dù ’n terra vocianno. Adelina cchiù scantata di lui a vidirlo accussì scantato.
«Chi fu, dutturi? Chi fu?».
Ma lui non potiva arrispunniri. Non ce la faciva.
Ancora stinnicchiato ’n terra, era stato assugliato da ’na botta di risate che lo facivano lacrimiare.
La cammarera ci misi picca e nenti ad agguantari il purpo e ad ammazzarlo a muzziconate ’n testa.
Montalbano si fici la doccia e po’ si sottopose alla medicazioni d’Adelina per l’abbrusciature alla schina. Appresso si vippi il cafè rifatto, si vistì e si priparò a nesciri.
«Che fazzo, lo riattacco il tilefono?» gli spiò Adelina.
«Sì».
E il tilefono sonò ’mmidiato. Annò ad arrispunniri. Era Livia.
«Perché non hai risposto prima?» attaccò.
«Prima quando?».
«Prima».
Matre santa, la pacienza che ci voliva con quella fìmmina!
«Posso sapere a che ora hai telefonato?».
«Verso le sette».
S’apprioccupò. Come mai l’aviva chiamato accussì presto? Che potiva essiri successo?
«Perché?».
«Perché cosa?».
Minchia, che dialogo!
«Perché m’hai chiamato così presto?».
«Perché il mio primissimo pensiero, appena ho aperto gli occhi, oggi è stato per te».
A Montalbano, va a sapiri pirchì, scattò ’mmidiata la molla del cavillo. Che potiva portari a effetti disaggevoli.
«In altri termini» replicò «questo viene a significare che ci sono giorni nei quali io non sono il tuo primo pensiero» fici friddo friddo.
«Ma dai!».
«No, a me interessa. Qual è la prima cosa che pensi quando ti svegli?».
«Scusami, Salvo, e se facessi la stessa domanda a te?».
Ma Livia non aviva ’ntinzioni d’azzuffarisi e continuò:
«Non essere stupido. Auguri».
Di colpo, Montalbano sprofunnò nell’angoscia.
Lui le date, le ricorrenze, i compleanni, l’onomastici, l’anniversari e camurrie simili, se li scordava tutti. Non c’era verso. Nebbia fitta.
Tutto ’nzemmula, ebbi ’n’illuminazioni: di sicuro era la ricorrenza del loro longo zitaggio. Da quant’è ch’erano ziti?
A momenti avrebbiro potuto fistiggiare, ammesso che esistiva, lo zitaggio d’argento.
«Anche a te».
«Perché anche a me?».
Dalla dimanna di Livia capì che aviva sbagliato. Che grannissima rottura di cabasisi!
E allura doviva trattarisi di ’na cosa che l’arriguardava di pirsona pirsonalmenti. Ma cosa?
Meglio chiuiri subito la partita, con un generico ringrazio.
«Grazie».
Livia si misi a ridiri.
«Ennò, caro mio! Tu hai detto grazie solo per farla finire lì! E invece scommetto che non ti ricordi nemmeno che giorno è oggi!».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
Lascia un commento