Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La voce degli uomini freddi di Mauro Corona. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 11,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La voce degli uomini freddi: trama del libro
C’è un popolo che vive di stenti in una terra ostile. Una terra in cui nevica sempre, anche d’estate, le valanghe incombono dalle giogaie dei monti e le api sono bianche. E gli uomini hanno la carnagione pallida, il carattere chiuso, le parole congelate in bocca. Però è gente capace di riconoscenza, di solidarietà silenziosa, uomini e donne con un istinto operoso che li fa resistere senza lamentarsi, anzi, addirittura lavorare con creativa alacrità, con una fierezza gioiosa, talvolta, pronti a godere dei rari momenti di requie, della bellezza severa del paesaggio, della voce allegra del loro “campo liquido”, il torrente che, scorrendo sul fondo della valle, dà impulso a segherie e mulini. Il torrente è una delle voci di questi uomini freddi solo all’apparenza, ed è l’acqua – neve allo stato liquido, si potrebbe dire, che, se da un lato mette in moto tutte le attività, dall’altro innesca il dramma che sta sospeso su quelle vite grame eppure, in qualche modo, felici. Corona ci ha abituato alle narrazioni corali, alle epopee umili di gente che avanza compatta con le proprie storie senza storia solo perché nessuno ha voluto abbassare l’orecchio al livello del suolo per ascoltarne la voce flebile eppure emozionante. Vite che, come scriveva Ungaretti dei morti: “Non fanno più rumore del crescere dell’erba, lieta dove non passa l’uomo”. All’armonia di una vita aspra ma equilibrata si contrappone il ritmo disumano delle “città fumanti”…
Approfondimenti sul libro
In ebook La voce degli uomini freddi (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro.
Era un paese di neve. Nevicava anche d’estate. E nelle altre stagioni lo stesso. Nevicava sempre.
La neve di quelle rampe infami era materia perenne, tanto che la gente aveva la faccia bianca di chi sta sempre al chiuso e il carattere silenzioso e gelido delle nevicate.
Lassù vivevano donne e uomini soffiati nella neve, statue di ghiaccio che nessun fuoco avrebbe mai potuto sciogliere. Nemmeno quello dell’amore. Si diceva che durante gli amplessi conservassero i corpi gelidi, mentre l’irruenza del coito era disordinata e forte come due valanghe che si scontrano. I bambini che nascevano venivano subito messi da parte, ché le vecchie levatrici, ormai carcasse gelide e tristi, quasi non li tenevano in mano, tanto erano freddi.
Così era la faccenda lassù, sui monti degli invisibili. Quella gente isolata e solitaria quando moriva diventava un po’ tiepida perché da viva era più fredda che da morta. Anche se pare impossibile, era così.
Quando nevicava d’estate, la valle si trasformava in un presepio irreale e lontano, e le vacche alle malghe restavano senza pascolo. Allora gli uomini salivano con fasci di fieno finché il sole non tornava a sciogliere quella neve fuori tempo e l’erba alzava di nuovo la testa, drizzava la schiena e diceva: «Finalmente!».
Nessuno sapeva spiegarsi perché in quella valle remota nevicasse in tutte le stagioni. Forse era l’aria che portava freddo improvviso o una maledizione. Chissà. Incastrato tra le montagne, come in fondo a un portacote, tutto quel che cadeva dal cielo finiva là dentro, sulla testa degli uomini freddi. Ma a loro non importava e nemmeno si domandavano perché. Era così e basta.
Ciò che invece sapevano quegli uomini congelati era che campavano improvvisi e fragili come i fiocchi di quella neve che da sempre li avvolgeva. Se capitava qualche gioia, perché anche quelli avevano il cuore, si avvilivano come se cominciassero a sciogliersi. La felicità a loro faceva male come il sole alla neve. Li faceva sparire. Non fisicamente, quello no, ma li indeboliva. Allora sparivano dalle vie e dalle strade e dai sentieri, intanandosi nelle case a tribolare, quando invece, al loro posto, uomini normali avrebbero fatto festa. Lassù era così.
In quei posti non vivevano uomini normali, anche se di normale avevano tutto. Erano fatti esattamente come quelli delle pianure, o delle valli lontane, solo che erano stati modificati dalla neve, la quale decideva il loro destino tutto l’anno. Lo aveva deciso nei secoli passati e avrebbe seguitato a farlo. Ma loro non si lamentavano né si preoccupavano, stavano bene così. Anzi, se per caso qualche anno andava bene e le stagioni erano piuttosto regolari e quindi nevicava meno, quasi si preoccupavano che la coperta bianca non andasse a trovarli fuori dal tempo giusto. Erano abituati a vedersela spuntare d’improvviso e, se mancava, invece che godersi la fortuna stavano col naso in su, a sentire se per caso era vicina.
Bisogna dire che venivano anche periodi buoni, e il tempo si faceva bello e il sole scaldava quelle anime solitarie appese alle rocce, e le stagioni erano stagioni. Ma non potevano fidarsi e meno ancora sperare, perché di punto in bianco, anche a luglio e agosto, il cielo diventava grigio come una conca di pietra, tutto attorno luceva una falce di gelo e si metteva a nevicare. E ne veniva tanta, anche un metro, non le solite burrasche estive che possono capitare ovunque. Allora rischiava di rovinarsi il raccolto, le semine pativano, morivano le api, marcivano gli innesti. Ma quelli si erano fatti accorti, avevano escogitato sistemi, inventato trucchi e accorgimenti per proteggersi e salvare i loro beni. Sapevano quando sarebbe arrivata la coperta a seppellirli. La percepivano. Fiutavano l’aria, tastavano la corteccia degli alberi se era umida, palpavano la terra, sentivano che si ritirava come quando si toccano le corna alle chiocciole. Poi guardavano la volta del cielo verso là, dove la valle pareva la bocca spalancata di un lupo, irta di denti e rocce affilate.
La neve, quando spuntava, arrivava cavalcando i monti incastrati nell’ombroso settentrione. A quel punto dicevano: «Gost’ochì», che voleva dire: “È qua”. E allora, se era la stagione dei raccolti, correvano a coprirli con assi di larice che poggiavano su telai già predisposti. E intorno agli alberi da frutta premevano degli imbuti fatti con la scorza delle piante sempreverdi come l’abete, il larice, il pino cembro, ma anche la betulla. Così facevano lassù. In questo modo salvavano gran parte del nutrimento. Per concimare i campi, oltre al pastoso letame delle vacche, andavano a raccogliere gli escrementi di milioni di pipistrelli in una grotta enorme, buia come una miniera di carbone. La chiamavano l’antro della notte. Era da vederli muoversi come un branco di formiche in qua e in là, indaffarati a coprire i raccolti, veloci come lucertole spaventate. Per quasi tutto l’anno correvano. Erano allenati e ognuno sapeva cosa fare, ognuno aiutava gli altri e gli altri aiutavano lui.
Ronzando tutta la vita in mezzo alla neve, anche le api avevano modificato il loro modo di vivere e il corpo, addirittura. Erano diventate bianche che a vederle, quando volavano raccolte a sciami, parevano sbuffi di neve a fiocchi. Riuscivano a trovare nettare e polline nei posti più riparati o nascosti, dove i fiori fortunati si salvavano dalla tenaglia del freddo che si trascinava dietro la neve improvvisa dell’estate. Oppure vigilavano, girando in volo sopra la coperta bianca, aspettando che il sole la strappasse via e i fiori drizzassero la testa come le erbe. A quel punto andavano giù a piantare l’affilata siringa tra i petali per succhiare quella roba buona da fare il miele, lavandosi il muso nei petali ancora bagnati.
Gli abitanti di quel luogo desolato e fiabesco avevano imparato molti trucchi dalle api, per modellarsi e adattarsi al perenne castigo della neve, che ormai non era più un castigo ma un’amica da amare e compatire. Occorreva aver pazienza, la neve aveva un brutto carattere. Prima regola era stare assieme, lavorare in gruppo per la vita di quell’alveare sospeso sul mondo che era il villaggio degli uomini freddi. Nel privato, ognuno scolpiva come voleva il tronco delle sue idee, ma quando c’era in gioco il bene comune si davano manforte restando uniti e compatti come le api. E come le formiche. Perché anche dalle formiche avevano imparato a stare lì. Pure loro erano state costrette a vivere sotto la neve che veniva improvvisa a coprire i formicai. Ma non erano diventate bianche come le api e il perché di questo mistero gli uomini freddi ogni tanto se lo chiedevano.
Era successo così, lassù, la neve dei secoli cadeva fuori stagione, regalando a tutti il suo colore candido, dalle facce degli uomini alle api, dalle cortecce degli alberi al pallido chiarore delle erbe. E al calcare delle rocce che la neve insaponava e sciacquava di continuo come a volerle tenere sempre bianche e pulite. Per questo, quando l’alba veniva a tirarle fuori dalla notte, parevano spose novelle che uscivano fresche fresche dalla grande chiesa del creato.
In quel paese remoto, accoglieva i morti un cimitero senza croci. Gli abitanti dicevano che, da vivi, gli uomini sono tutti diversi, come i fiocchi di neve, ma nella morte si consumano e diventano la stessa terra, come i fiocchi che sciogliendosi diventano la stessa acqua. Ecco perché non c’erano nomi né croci lassù nel camposanto delle nevi eterne. In quel luogo di silenzio profondo, dove la vita diventava immobile, quando nevicava parenti e amici alzavano un pupazzo di neve sulle fosse dei defunti. Appena tornava bel tempo quello si scioglieva e andava a sprofondare laggiù, nella terra umida dei morti, a portar loro la luce del tempo di fuori, il candore delle nevicate e le notizie di quelli che s’ingegnavano senza pace e senza rabbia, sulle spalle della montagna inospitale. Il pupazzo di neve significava che la vita è breve e tribolata, si disfa e scompare presto. Che ci sia sole o pioggia o il vento delle stagioni, la vita se ne va. E al posto del pupazzo fragile e provvisorio appena scomparso, sulla tomba ne sorgerà un altro eretto da uomini e donne, perché sono gli uomini e le donne che danno origine ad altre vite. Tutti stiamo ritti sopra le nostre fosse, messi lì dai genitori, in attesa, quando il tempo vorrà, di scivolarvi dentro come l’acqua dei pupazzi scongelati. Così pensavano lassù. Una realtà ineluttabile che gli abitanti del paese di neve avevano ben capito. Per questo non davano importanza ai giorni e nemmeno a quel che facevano. Perché quello che facevano doveva durare il tempo necessario alla vita.
Lassù viveva gente mite ed essenziale che arrivava, durava e spariva in silenzio come la neve. Non lasciavano ricordi se non racconti, buoni insegnamenti e istruzioni per costruire ciò che serviva ai giorni. Quando uno moriva, tutte le sue cose, se erano di legno, venivano bruciate per scaldare la casa. Ultimo aiuto che il defunto poteva dare. Se di metallo o pietra, venivano seppellite nel cimitero assieme al suo corpo. Quella roba consunta dall’uso, levigata di sudore, l’aveva adoperata lui, il morto, vi era penetrata dentro un po’ della sua anima e, secondo loro, nessuno poteva disturbare con altre mani la sua anima. Ciò che le sue mani avevano toccato per il tempo della vita doveva esser lasciato dormire in pace.
Quella gente viveva come la neve: lieve e silenziosa, senza aggrapparsi alle cose terrene, ma scivolando via da esse come la neve dai mughi nel tempo del disgelo. Solo tre cose conservavano dei morti: la scure, la vanga e la pipa, se uno la fumava. La scure era simbolo di resistenza, legna da ardere, artigianato, difesa da orsi e lupi che di notte sotto la neve grattavano il cielo di piombo con le loro grida affilate. La vanga era simbolo di terra, i campi, gli orti, i prodotti che maturavano sotto le intemperie, le verdure, le patate nere che sapevano di tartufo e quelle bianche più buone del pane, dolci come il miele. La pipa rappresentava il suono delle parole. Come un filo d’erba cresciuto fra due pietre, era vissuta fra labbra che avevano pronunciato parole. Belle o brutte. E baci, se ne avevano dati. Parole e baci, forse bestemmie pronunciate da labbra che nelle pause di lavoro inumidivano il beccuccio della pipa, mentre la testa pensava al tempo della fatica, dell’esistenza agra, e a tutto quel che girava intorno a queste cose.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Mauro Corona.
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