Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Zanna Bianca di Jack London. Il romanzo è pubblicato in Italia, tra gli altri, da Feltrinelli, con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Zanna Bianca: trama del libro
“Zanna Bianca, il protagonista del romanzo, è l’unico di quattro cuccioli che riesce a sopravvivere in una grotta dello Yukon, sopra un torrente, lontano da ovunque. Dentro la tana inaccessibile, il piccolo lupo viene al mondo generato da colei che viene semplicemente presentata come ‘la lupa’ e la prima parte del libro lascia in questa sospensione il lettore per condurlo sulla pista dei valori ‘primordiali’, senza nomi e cognomi. È come se London volesse sfruttare un archetipo e i suoi simboli; solo in seguito scopriamo che ‘la lupa’ è Kiche, figlia di un lupo e di un cane, una femmina agguerrita e astuta, già di proprietà del capotribù Castoro Grigio. […] Zanna Bianca nasce nel Wild e nasce lupo con dentro il codice genetico del cane: quest’altro archetipo alla fine prevarrà dopo una lunga storia formativa fatta di durezza e amore, rinuncia e crudeltà. Anche il padre di Zanna Bianca è un archetipo, ma il vecchio lupo grigio Occhio Solo, sopravvissuto a mille battaglie e alla furia della natura selvaggia, diventa il simbolo della vita che sopravvive a se stessa, del Wild che scorre dalle generazioni che lo hanno preceduto a quelle future.” (Dalla Postfazione di Davide Sapienza)
Edito da Feltrinelli Editore nel 2014 • Pagine: 304 • Compra su Amazon
“Non si violano le sollecitazioni di una natura senza che essa si ritorca contro se stessa” “Zanna Bianca, il protagonista del romanzo, è l’unico di quattro cuccioli che riesce a sopravvivere in una grotta dello Yukon, sopra un torrente, lontano da ovunque. Dentro la tana inaccessibile, il piccolo lupo viene al mondo generato da colei che viene semplicemente presentata come ‘la lupa’ e la prima parte del libro lascia in questa... → CONTINUA SU AMAZON
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Ma la vita ribelle nel territorio c’era eccome. Lungo la via d’acqua ghiacciata una fila di cani famelici sfacchinava con l’ispida pelliccia orlata di brina. Il loro fiato, come usciva dalla bocca, si ghiacciava in aria e poi schizzava oltre con spume di vapore che andavano a formare cristalli di ghiaccio sul pelo. I cani indossavano imbraghi di cuoio ed erano legati con le tirelle alla slitta che trainavano. Era una slitta senza pattini fatta di solida corteccia di betulla e che poggiava completamente sulla neve, con l’estremità anteriore rivolta all’insù e a forma di chiocciola, questo per potersi abbassare sotto il peso della neve morbida che si sollevava come un’onda durante la progressione. Saldamente assicurate sulla slitta c’erano una stretta cassa bislunga e altre cose: delle coperte, un’ascia, una caffettiera e una padella; ma era la stretta cassa bislunga a occupare quasi tutto lo spazio.
Davanti ai cani c’era un uomo che sgobbava indossando ampie racchette da neve. Dietro la slitta ce n’era un altro e un terzo si trovava dentro la cassa sulla slitta. Lui aveva finito di sgobbare, il Wild lo aveva conquistato e lo aveva abbattuto sino a non farlo più muovere né lottare. Non è nella natura del Wild amare il movimento. La Vita lo offende perché è movimento ma il Wild vuole sempre distruggere il movimento. Congela l’acqua per impedirle di scorrere sino al mare; caccia la linfa dagli alberi sino a farne congelare i cuori potenti, ma la cosa più feroce e terribile è quando tormenta e annienta sino alla sottomissione l’uomo, la cosa più irrequieta della vita, colui che è in perenne rivolta contro l’asserzione che alla fine ogni movimento deve cessare.
Ma dietro e davanti i due uomini che ancora non erano morti sgobbavano indomiti e senza timori. I loro corpi erano coperti da pellicce e cuoio conciato morbido. I cristalli che il fiato congelato andava formando ricoprivano le loro sopracciglia, le guance e le labbra tanto che la loro faccia non era più distinguibile. Avevano l’aspetto di maschere spettrali, impresari di pompe funebri al funerale di uno spirito in un mondo di spettri. Ma sotto c’erano uomini che penetravano la terra della desolazione, della beffa e del silenzio, fragili avventurieri risoluti a una colossale avventura che si opponevano alla potenza di un mondo alieno, remoto e privo di pulsazione proprio come gli abissi dello spazio.
Avanzavano senza parlare, risparmiando il fiato per il lavoro. Il silenzio premeva su di loro da ogni direzione come una presenza tangibile e sul cervello aveva lo stesso effetto delle atmosfere che influenzano il corpo del sommozzatore nelle acque profonde. Questo silenzio li annientava con il peso della vastità infinita e di una sentenza definitiva. Li costringeva nei recessi più remoti della mente spremendo da loro, come il succo dall’uva, i falsi ardori, l’esaltazione e l’esagerata autostima dell’animo umano, facendoli sentire piccoli e limitati come pagliuzze, fuscelli che si muovevano con inutile astuzia e scarsa saggezza nel cuore della partita e della cieca interazione tra i grandi elementi e le grandi forze.
Passò un’ora, e poi un’altra. La pallida luce del breve giorno senza sole stava iniziando a svanire quando, in lontananza, nell’aria ferma si levò un richiamo indistinto. Era salito come una rapida corrente sino a raggiungere la nota più elevata, tesa e palpitante che, persistendo, lentamente andò a morire. Avrebbe potuto essere il lamento di un’anima perduta, se non fosse stata rivestita da una certa ferocia dolente e da una brama famelica. L’uomo davanti girò la testa e con lo sguardo incrociò gli occhi di quello dietro. Il cenno reciproco viaggiò da un capo all’altro della stretta cassa bislunga.
Ci fu un secondo richiamo che penetrò il silenzio pungente come un ago. I due uomini localizzarono il suono. Veniva da dietro, da qualche parte nella distesa di neve appena attraversata. Sempre da dietro, ma sulla sinistra rispetto al secondo, si levò un terzo richiamo di risposta.
“Vogliono noi, Bill,” disse l’uomo davanti.
La sua voce aveva un suono rauco, irreale. Aveva parlato con evidente sforzo.
“La carne scarseggia,” rispose il compare. “Da giorni non si vedono tracce di lepre.”
Dopodiché non parlarono più, nonostante tenessero le orecchie tese in ascolto dei richiami di caccia che continuavano ad alzarsi alle loro spalle.
Quando calò il buio infilarono i cani in un gruppo di abeti rossi sul margine della via d’acqua e prepararono il campo. La bara, accanto al fuoco, faceva da sedia e da tavolo. I cani lupo, stretti dall’altra parte del fuoco, ringhiavano e bisticciavano ma non mostravano la tendenza ad allontanarsi nell’oscurità.
“Henry, a me sembra che siano proprio vicini al campo,” commentò Bill.
Henry annuì accovacciandosi di fronte al fuoco dove sistemò la caffettiera con un pezzo di ghiaccio. Non disse nulla sino a quando ebbe iniziato a mangiare seduto sulla bara.
“Conoscono il nascondiglio sicuro. Preferiscono mangiare piuttosto che essere cibo. Quei cani sono svegli.”
Bill scosse la testa. “Mah, non saprei.”
Il compare lo guardò curioso. “È la prima volta che ti sento dire una cosa del genere.”
“Henry,” disse l’altro masticando con decisione i fagioli, “non hai notato come scalciavano i cani mentre gli davo da mangiare?”
“Hanno fatto i buffoni più del solito,” riconobbe Henry.
“Henry, quanti cani abbiamo?”
“Sei.”
“Allora Henry…” Bill si fermò un istante per consentire alle parole di assumere un significato più profondo. “Stavo dicendo che abbiamo sei cani, Henry. Io ho tolto sei pesci dalla sacca. Io ho dato un pesce a ogni cane, Henry, eppure mancava un pesce.”
“Hai contato male.”
“Noi abbiamo sei cani,” ripeté l’altro pazientemente. “Ho tirato fuori sei pesci. One Ear non ha ricevuto il suo. Perciò sono tornato a prenderne uno dalla sacca per lui.”
“Abbiamo solo sei cani,” disse Henry.
“Henry,” continuò Bill, “non ti sto dicendo che erano tutti cani, ma che il pesce lo hanno mangiato in sette.”
Henry smise di mangiare per dare un’occhiata al di là del fuoco e contare i cani.
“Adesso sono solo sei.”
“L’altro l’ho visto scappare nella neve,” annunciò Bill con distaccato convincimento. “Io ne ho visti sette.”
Henry lo guardò compassionevole e disse: “Sarò infinitamente contento quando il viaggio sarà finito”.
“Cosa vorresti dire?” domandò Bill.
“Voglio dire che questo carico ci sta snervando e che tu inizi a vedere delle cose.”
“Ci ho pensato,” rispose Bill con tono grave. “Per questo quando l’ho visto scappare nella neve sono andato a controllare e ho scoperto le tracce. Poi ho contato i cani e ce n’erano sei. Le tracce sono là nella neve. Vuoi vederle? Te le mostro.”
Henry non replicò. Continuò a masticare in silenzio sino a quando, finito il pasto, concluse con un’ultima tazza di caffè. Poi si ripulì la bocca con il dorso della mano e disse:
“Allora stai pensando che era…”.
Era stato interrotto da un lungo e feroce lamento dolente proveniente da qualche luogo nel buio. Si fermò ad ascoltare, poi finì la frase facendo un cenno con la mano verso il richiamo: “…uno di loro?”.
Bill annuì. “Che diamine, faccio prima a pensare a quello che a qualsiasi altra cosa. Hai notato anche tu che parapiglia hanno fatto i cani.”
I richiami, oltre a quelli di risposta, stavano trasformando il silenzio in una bolgia. Le urla si levavano da ogni parte e i cani tradivano la paura accoccolandosi insieme ma così vicini al fuoco da bruciacchiarsi il pelo. Bill buttò altra legna, poi accese la pipa.
“Sto pensando che sei un po’ triste,” disse Henry.
“Henry…” Per un po’ aspirò dalla pipa meditabondo. Poi continuò: “Henry, stavo pensando che lui è maledettamente più fortunato di quanto non lo potremo mai essere tu e io”.
Spinse il pollice in giù sulla cassa dove stavano seduti indicando la terza persona.
“Henry, quando moriremo saremo fortunati se ci saranno pietre sufficienti per tenere lontani i cani dalle nostre carcasse.”
“Ma noi non abbiamo gente, soldi e tutto il resto come lui,” replicò Henry. “I funerali a grande distanza non sono proprio cose che possiamo permetterci.”
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Jack London.
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