Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Zona disagio di Jonathan Franzen, romanzo autobiografico edito in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 11,00 euro (ma online lo si acquista con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
Zona disagio: trama del libro
Louis Holland, un esponente radicale della “Nowhere Generation”, arriva a Boston per lavorare in una radio durante un’estate molto strana: la zona è devastata dai terremoti, scossa dalle manifestazioni degli antiabortisti e infestata da numerosi membri della famiglia da cui cerca di fuggire. Incontra Renée Seitchek, una geniale e appassionata sismologa: la loro già nevrotica relazione si complica quando la donna comincia a sospettare che la prima causa dei terremoti non sia da cercare nella natura, ma fra gli uomini…
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La casa di mia madre a Webster Groves era buia, tranne che per una lampada temporizzata in soggiorno. Aprii la porta, andai subito verso lo scaffale dei liquori e mi versai una robusta dose di alcol, come mi ripromettevo di fare da quando ero salito sul primo dei due aerei che mi avevano condotto fin lí. Mi sentivo una specie di vichingo, in diritto di saccheggiare tutte le provviste a portata di mano. Stavo per compiere quarant’anni, e i miei fratelli maggiori mi avevano affidato il compito di andare in Missouri a scegliere un agente immobiliare per la vendita della casa. Finché fossi rimasto a Webster Groves ad agire per conto degli eredi, lo scaffale dei liquori sarebbe stato mio. Mio! Idem per l’impianto di aria condizionata, che regolai su una temperatura glaciale. Idem per il freezer in cucina, che sentii la necessità di aprire immediatamente e rovistare da cima a fondo, sperando di trovare qualche salsiccia, un po’ di stufato di manzo fatto in casa, qualcosa di grasso e appetitoso che potessi riscaldare e mangiare prima di andare a letto. Mia madre non dimenticava mai di etichettare il cibo con la data in cui l’aveva congelato. Sotto innumerevoli sacchetti di mirtilli trovai un persico pescato da un vicino tre anni prima. E sotto il persico c’era una punta di petto di manzo vecchia di nove anni.
Ispezionai la casa e tolsi le foto di famiglia da tutte le stanze. Era un gesto che non vedevo l’ora di compiere, quasi quanto versarmi quel bicchiere. Mia madre teneva troppo all’eleganza formale del salotto e della sala da pranzo per ingombrarli di fotografie, ma altrove ogni davanzale e ogni tavolo erano gorghi in cui si accumulavano i ritratti nelle loro cornici a buon mercato. Riempii un sacchetto di plastica con la mercanzia che tirai giú dal mobile del televisore. Colsi un’altra sacchettata da una parete del soggiorno, carica come una spalliera di alberi da frutto. La maggior parte erano foto dei nipotini, ma in alcune comparivo anch’io: con un sorriso ortodontico su una spiaggia della Florida, con i postumi della sbronza alla cerimonia di laurea, con le spalle curve il giorno del mio sfortunato matrimonio, a un metro di distanza dal resto della famiglia durante una vacanza in Alaska che mia madre, poco prima di morire, ci aveva offerto spendendo una considerevole percentuale dei suoi risparmi. In quest’ultima foto, nove di noi erano venuti cosí bene che mia madre aveva disegnato con la penna blu gli occhi della decima persona, una nuora che aveva battuto le palpebre al momento dello scatto e che ora, con quegli occhi d’inchiostro malriusciti, aveva un’aria placidamente mostruosa o folle.
Mi dissi che era importante spersonalizzare la casa prima che gli agenti immobiliari venissero a vederla. Ma se qualcuno mi avesse chiesto perché, quella sera stessa, avessi trovato necessario ammucchiare i cento e passa portaritratti sopra un tavolo nel seminterrato e strappare, tagliare, staccare o sfilare via ogni fotografia dalla cornice, buttare tutte le cornici dentro sacchetti di plastica che poi stipai negli armadietti, e ficcare tutte le foto in una busta in modo che nessuno le vedesse – se qualcuno mi avesse fatto notare che sembravo un conquistatore che bruciava le chiese e fracassava le icone del nemico – avrei dovuto ammettere che mi stavo godendo il possesso della casa.
Ero l’unico della famiglia ad aver passato l’intera infanzia lí dentro. Da ragazzino, quando i miei genitori dovevano uscire, contavo quanti secondi mancavano al momento di prendere pieno ancorché temporaneo possesso della casa, e finché rimanevano fuori mi dispiaceva che dovessero tornare. Da allora in poi, per decenni, osservai sdegnato l’addensamento sclerotico delle foto di famiglia, mi irritai quando mia madre mi usurpò cassetti e armadi, e alla sua richiesta di far sparire le mie vecchie scatole piene di libri e carte, reagii come un gatto domestico al quale si volesse inculcare uno spirito comunitario. Mia madre, a quanto pareva, era convinta che quella casa le appartenesse.
E naturalmente aveva ragione. Era la casa in cui, cinque giorni al mese per dieci mesi, mentre io e i miei fratelli continuavamo a vivere sulle due coste, era tornata da sola per trascinarsi a letto dopo la chemioterapia. La casa da cui, un anno dopo, all’inizio di giugno, mi aveva telefonato a New York dicendo che doveva tornare in ospedale per un altro intervento esplorativo, scoppiando poi in lacrime e scusandosi per averci delusi tutti e averci dato un’altra brutta notizia. La casa dove, una settimana dopo che il chirurgo aveva scosso tristemente la testa e le aveva ricucito l’addome, aveva torchiato la nuora piú fidata sull’idea dell’aldilà, e quando mia cognata aveva confessato che, sotto un profilo puramente logistico, le sembrava un’idea piuttosto inverosimile, mia madre, d’accordo con lei, aveva per cosí dire messo una crocetta accanto alla voce «Decidere sull’aldilà», ed era tornata alla sua lista di cose da fare con il consueto pragmatismo, occupandosi di altre incombenze rese ancora piú urgenti dalla sua decisione, come per esempio «Invitare uno alla volta gli amici piú intimi e dir loro addio per sempre». Era la casa da dove, un sabato mattina di luglio, mio fratello Bob l’aveva accompagnata dalla sua solita parrucchiera a buon mercato, una vietnamita che l’aveva accolta dicendo: «Oh, signora Fran, signora Fran, la trovo malissimo», e dove era tornata un’ora dopo per finire di sistemarsi, perché aveva speso le miglia frequent-flyeraccumulate in molti anni per due biglietti di prima classe, e un viaggio in prima classe era l’occasione per apparire al meglio, e quindi anche per sentirsi al meglio; era scesa dalla sua stanza vestita da prima classe, aveva detto addio alla sorella, che era venuta da New York per assicurarsi che la casa non fosse vuota al momento della sua partenza – che ci fosse qualcuno a salutarla – e poi era andata all’aeroporto con mio fratello ed era partita per la costa nordoccidentale del Pacifico, dove avrebbe trascorso il resto della vita. La casa, per il fatto stesso di essere una casa, era piú lenta a morire, e ciò la rendeva una zona di benessere per mia madre, che aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa piú grande di lei ma che non credeva nel soprannaturale. La casa era il Dio pesante (ma non infinitamente pesante) e solido (ma non eterno) che mia madre aveva amato e servito e al quale si era appoggiata, e mia zia era stata molto saggia a starle vicino in quel momento.
Ma adesso dovevamo metterla in vendita, e in fretta. Eravamo già alla seconda settimana di agosto, e la qualità piú interessante della casa, ciò che ne compensava i numerosi difetti (la cucina minuscola, l’insignificante giardino sul retro, il bagno al piano di sopra troppo piccolo), era l’ubicazione nel quartiere della scuola cattolica, attigua alla chiesa di Mary, Queen of Peace. Considerata la qualità delle scuole pubbliche di Webster Groves, non capivo perché una famiglia dovesse spendere di piú per vivere in quel quartiere, allo scopo di spendere ancora di piú per mandare i figli a una scuola di suore, ma erano molte le cose del cattolicesimo che non riuscivo a capire. Secondo mia madre, i genitori cattolici di tutta St Louis aspettavano con impazienza la vendita di nuove case nella zona, ed era noto che alcune famiglie di Webster Groves avevano traslocato un paio di isolati piú in là per risiedere entro i confini del quartiere.
Purtroppo di lí a tre settimane, una volta cominciato l’anno scolastico, i giovani genitori avrebbero perso interesse. Inoltre mi sentivo sotto pressione perché volevo aiutare mio fratello Tom, l’esecutore testamentario, a finire in fretta il suo lavoro. Un altro genere di pressione arrivava dall’altro mio fratello, Bob, il quale mi aveva esortato a ricordare che si trattava di un sacco di soldi. («La gente abbassa il prezzo da 782000 a 770000 dollari durante le contrattazioni, pensando che sia sostanzialmente la stessa cifra, – mi aveva detto. – E invece no, in realtà sono dodicimila dollari in meno. Non so tu, ma io ho in mente parecchie cose che preferirei fare con dodicimila dollari, piuttosto che regalarli all’estraneo che sta comprando la mia casa»). Tuttavia la pressione piú forte proveniva da mia madre, la quale, prima di morire, aveva messo in chiaro che il modo migliore per onorare la sua memoria e conferire valore agli ultimi decenni della sua vita sarebbe stato vendere la casa per una somma esorbitante.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore americano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Jonathan Franzen.
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