Il nuovo libro di Wilbur Smith, Grido di Guerra, scritto in collaborazione con David Churchill, è pubblicato in nel nostro paese da Longanesi nella collana “I maestri dell’avventura”. Il romanzo, piuttosto corposo, ruota attorno a una storia di spionaggio ambientata in Africa all’alba del secondo conflitto mondiale.
Trama di Grido di guerra, prezzo e anteprima
1938. Dopo un breve periodo di pace incostante, il mondo intero è nuovamente di fronte all’abisso di un sanguinoso conflitto. Ma il cuore di Saffron Courteney è in tumulto per la guerra non meno devastante esplosa dentro di sé. Cresciuta nel Kenya coloniale degli anni ’20 sotto l’occhio attento del padre, Leon, imprenditore di successo oltre che famoso veterano della grande guerra, Saffron Courteney ha avuto un’infanzia idillica, finché un evento drammatico l’ha costretta a maturare molto, forse troppo in fretta. È ormai una giovane donna testarda e indipendente quando il destino dà una nuova svolta inaspettata alla sua vita… L’uomo che ama disperatamente, per il quale ha rischiato uno scandalo e perso gli amici più cari, porta il nome di Gerhard von Meerbach, il cui fratello è un magnate della nascente industria automobilistica tedesca nonché membro attivo del partito nazista. Nella sua lotta per rimanere fedele a se stesso e ai propri ideali di giustizia e libertà, Gerhard sarà presto costretto a opporsi alle forze del male che hanno preso il sopravvento sulla sua nazione e la sua stessa famiglia, legata da uno scomodo segreto a quella dei Courteney. Scaraventata nell’occhio del ciclone della Seconda guerra mondiale, anche Saffron si trova di fronte a scelte crudeli sul suo futuro, quello dei suoi cari e del suo Paese. Sullo sfondo dell’Europa dilaniata dal conflitto e della sublime bellezza dei paesaggi africani, Saffron e Gerhard assistono, entrambi in prima linea ma su fronti opposti, allo scontro tra i rispettivi mondi. Potrà il loro legame sopravvivere al capitolo più efferato della dell’uomo?
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«Papà aveva ragione a non amarti», disse con disprezzo. «Non sei mai stata degna di lui.»
In qualsiasi altro giorno lei lo avrebbe schiaffeggiato, ma in quel caso lasciò perdere. Poi la rabbia di Konrad sbollì repentina com’era divampata. «Se papà è morto, adesso il conte sono io?»
«Sì. Sei conte di Meerbach.»
Konrad gridò di gioia. «Sono il conte! Sono il conte!» cantilenò, marciando in giro per la stanza dei giochi come un tarchiato soldatino dalla testa rossa. «Posso fare ciò che voglio e nessuno può impedirmelo!» Si fermò accanto alla costruzione di Gerhard che, mattoncino dopo mattoncino, era diventata quasi alta come il suo creatore. «Ehi, Gerdi, guardami!»
Il bambino alzò gli occhi sul fratello maggiore, sorridendo con aria innocente.
Konrad sferrò un calcio al suo magnifico edificio, facendo volare i mattoncini su tutto il pavimento, poi un altro e un altro ancora, fino a demolirlo del tutto; rimasero solo le variopinte macerie, sparse per la stanza.
Il visino di Gerhard si contrasse per la disperazione e lui corse dalla madre singhiozzando.
Mentre cingeva il bimbo con le braccia, Athala guardò il giovanissimo conte, fermo con aria fiera accanto allo scempio appena provocato, e si rese conto, con amara disperazione, che era libera dal marito solo per ritrovarsi schiava di un figlio ancora più terribile.
La ragazzina ossuta portava un paio di calzoni da cavallerizza, che rimanevano flosci sulle cosce, tanto era magra. I corti capelli neri tagliati a caschetto, di solito liberi da fasce e mollette di sorta, erano stati raccolti in un piccolo chignon sotto il cappellino da equitazione. Il viso lentigginoso sfoggiava un’abbronzatura dorata e gli occhi erano di un azzurro limpido, come i cieli africani sotto i quali aveva trascorso ogni giorno della sua vita.
Tutt’intorno e fino all’orizzonte c’erano colline erbose solcate da ruscelli scintillanti, come se le Highlands scozzesi si fossero trasferite nel giardino dell’Eden: una magica terra di illimitata fertilità, inconcepibili dimensioni, eccitante e indomita selvatichezza. Lì i leopardi oziavano sui rami degli alberi che ospitavano anche scimmie urlatrici e serpenti, quali il luccicante e iridescente mamba verde o il timido ma letale boomslang. L’erba alta nascondeva leoni con denti e artigli affilati e il bufalo maschio, persino più letale, i cui corni potevano infilarsi nelle viscere di un uomo con la stessa facilità di un ago da cucito nel lino pregiato.
La bambina non pensava quasi mai a quei rischi perché non conosceva un altro mondo. Inoltre aveva cose ben più importanti per la testa. Stava accarezzando il muso vellutato della giumenta saura allevata in Somalia da cui non si era mai separata da quando, otto mesi prima, l’aveva ricevuta in dono per il suo settimo compleanno. Si chiamava Kipipiri, che in swahili significa «farfalla» oltre a essere il nome della montagna che svettava sull’orizzonte orientale, sfavillando come un miraggio nella foschia portata dal caldo.
«Guarda, Kippy», le disse la bambina con un bisbiglio rassicurante. «Guarda quei ragazzi cattivi e i loro orrendi stalloni. Facciamogli vedere cosa sappiamo fare!» Si mise accanto alla cavalla e, rifiutando con un gesto l’offerta dello stalliere di aiutarla a montare, infilò il piede nella staffa, si diede la spinta e saltò in sella con l’agilità di un fantino il Derby Day. Poi si allungò in avanti, sopra il collo di Kipipiri, accarezzandole la criniera mentre le sussurrava: «Vola, tesoro mio, vola!»
In preda a un inebriante turbinare di emozioni in cui orgoglio, aspettativa ed eccitazione lottavano contro nervosismo, ansia e il disperato desiderio di non fare brutta figura, la bambina si impose di calmarsi. Aveva imparato da tempo che l’amata Kippy riusciva a percepire il suo stato d’animo e se ne lasciava influenzare, e l’ultima cosa al mondo di cui avesse bisogno era una cavalcatura nervosa, ombrosa e sovreccitata. Trasse quindi un respiro profondo, come le aveva insegnato la madre, poi espirò lentamente, finché non sentì alleviarsi la tensione alle spalle. Raddrizzò la schiena e premette i talloni sui fianchi della giumenta per farla partire, sollevando polvere dalla terra rosso pepe, mentre si avviavano verso il cancelletto di partenza della pista per l’esibizione equestre, allestita su uno dei campi del Wanjohi Valley Polo Club per la gimkana del 1926.
Gli occhi della bambina fissarono gli ostacoli disseminati in maniera apparentemente casuale lungo il percorso. In testa aveva soltanto un pensiero: Vincerò!
A una delle travi di legno che reggevano la copertura in ferro ondulato della veranda della Clubhouse era appeso un altoparlante, da cui usciva la voce aspra e metallica di un uomo: «E ora l’ultimo concorrente della gara di salto a ostacoli per la categoria fino ai dodici anni, Miss Saffron Courteney, su Kipi-pipi-piri…» Vi fu un attimo di silenzio. «Scusatemi, temo di aver esagerato con i ’pi’.»
«E anche con i Pink Gin, eh, Chalky?» gridò uno degli spettatori sulle tribune – semplici panche di legno – della gimkana annuale organizzata dal Polo Club per i figli dei soci.
«Verissimo, ragazzo mio, verissimo», confessò lo speaker, prima di proseguire. «Finora è stato effettuato soltanto un percorso netto, a opera di Percy Toynton su Hotspur, quindi Saffron è l’unico ostacolo fra lui e la vittoria. È di gran lunga la più giovane partecipante a questa gara, quindi facciamole un bell’applauso di incoraggiamento.»
Alcuni svogliati battimani si levarono dalla cinquantina di coloni bianchi venuti a guardare i figli impegnati nella gimkana, o semplicemente per approfittare dell’occasione e lasciare le rispettive fattorie e aziende per un po’ di vita sociale. Erano intorpiditi dal tepore del sole del primo pomeriggio e dall’aria rarefatta; i campi da polo infatti si trovavano a circa duemila metri di altitudine, particolare che sembrava accentuare gli effetti del loro eroico consumo di alcolici. Alcune anime piuttosto disincantate e decadenti erano ancor più inebetite dall’oppio, mentre chi sfoggiava palesi tracce di energia o eccitazione aveva molto probabilmente sniffato la cocaina che negli ultimi tempi, fra i membri più audaci della società keniota, era diventata familiare come un cocktail prima di cena.