Edito da Kimerik nel 2017 • Pagine: 60 • Compra su Amazon
“Sull’odioso acronimo che, con una virata indifferente, sentenzia la mia morte (I.v.g.), io ho costruito il racconto della mia vita”. È la voce del bimbo che si affaccia da queste brevi righe: un bimbo a cui già batte il cuore, ma che non è considerato vivo; a cui già sono germogliate le manine, ma che non ha il diritto di chiamarsi umano. Invece vorrei giocare raccoglie i pensieri di una piccola vita custodita in un grembo, i sogni di un’anima che aspira all’eternità.
Mia figlia Morena ha vent’anni… e l’animo di una bambina. Trisomia 21, diceva il giornale. Mia moglie e io leggemmo l’annuncio tra un cambio di pannolini e l’altro del nostro ultimogenito. Una bimba di otto mesi, in un ospedale all’altro capo del Paese, cercava una famiglia adottiva. Era nata con la sindrome di Down e i genitori non si erano sentiti di riconoscerla. Le avevano dato un nome, però: Morena.
Sono medico e più di una volta ho assistito una madre sopraffatta dallo sconforto di veder nascere un bambino diverso: un giorno una donna pregò perché precipitasse l’elicottero su cui stavano trasportando il suo neonato… È un dolore annientante…
Non posso biasimare i genitori di Morena; li rispetto, anzi, e li apprezzo. Ammettere la propria debolezza non è vigliaccheria. Far pagare ad altri le nostre paure, però, questo sì che lo è.
Un bimbo non si fa da solo: sono le nostre azioni che lo chiamano alla vita e insabbiare un’azione non significa non averla compiuta.
Ricordo una giovane donna che venne nel mio studio con la ferma intenzione di abortire. Le mostrai l’ecografia del bimbo, le feci ascoltare il battito del cuore.
Fu come shoccata alla vista di quell’esserino che si muoveva beato nel suo grembo e, sull’onda della commozione, decise di tenerlo. Ma tornò da me infuriata alcuni mesi più tardi, dicendo che non sopportava la vita che il bambino la costringeva a vivere; che si sentiva oppressa, depauperata del proprio tempo e che detestava ogni singolo momento in cui il bimbo la chiamava a sé…
Credo che nessuno sia obbligato ad amare un bambino che non desidera, ma, soprattutto, credo che non sia obbligato a odiarlo per il fatto che, inevitabilmente, sembrerà risucchiare ogni atomo della nostra libertà. Il panico, a volte, ci rende tanto miopi…
Quando mia moglie e io parlammo ai bambini della possibilità di adottare una sorellina, furono proprio loro a insistere: sui loro volti appena abbronzati brillava una luce che oserei chiamare gioia. Sì, gioia. La gioia di crescere Morena, anzi, la gioia di crescere con Morena.
Perché, se l’amore non era sgorgato dall’animo dei suoi genitori, era sgorgato mille chilometri più in là, nella nostra famiglia. Che cosa si sono persi!
Perché, vedete, io amo Morena. La amo per quando mi ha smontato l’orologio nuovo con tanta minuzia da renderlo inutilizzabile. La amo per quando mi ha rubato il computer per iscriversi a un programma televisivo di dubbio gusto; la amo per quando è scappata per andare a sfondarsi di gelato – lei che ha il diabete! – in casa di amici; la amo per quando nasconde le polpette nella felpa e i panini nei cassetti; la amo quando fa le puzzette rumorose in chiesa e quando mi attacca il telefono in faccia, se provo a insegnarle a contare…
Dei nostri quattro figli, non è Morena quella che ci ha dato più problemi. Mia moglie ha sempre desiderato una bambina bionda con gli occhi azzurri e Morena è esattamente così.
Ma, soprattutto, Morena si fa amare per la sua disarmante sincerità e per quel suo amore selettivo, che riserva, con una dedizione assoluta, alle sole persone da cui si sente amata: non è stato facile, per i fidanzati delle sue sorelle, farsi accettare da lei. Solo i migliori hanno resistito.
Qualcuno crede che un bambino con patologie sia per forza di cose votato all’infelicità, o che la sua famiglia lo sia. Oh… Non mento quando dico che Morena, seduta a tavola con la sua famiglia nei giorni di festa, sembra proprio una regina felice. Siamo andati a un mercatino di beneficenza poche settimane fa.
«C’è qualcosa che desideri?» le ho chiesto.
So che non dovrei ma, a volte, mi piace viziarla.
Davanti a un bancone straripante, ha voluto un bambolotto da cinquanta centesimi. «Popa, popa» diceva e lo baciava…