Edito da Silvano Martina nel 2019 • Pagine: 33 • Compra su Amazon
La storia di un gatto randagio artefice, suo malgrado, di un incontro inaspettato, le modeste annotazioni di un viaggiatore, una lettera al direttore e un surreale articolo di giornale costituiscono questa piccola raccolta.
Quattro racconti che conducono il lettore, lungo strade poco battute, in un tempo sospeso, dove è possibile udire l’eco lontana di un presente complesso o scorgere i baluginii sinistri di un futuro immaginario, ma non troppo.
Il gatto con due padroni
There was Mahomet who was so fond of his cat Muezza that once, when she was sleeping on his sleeve, and he wished to get up, he cut off the sleeve rather than disturb her.1
O.T. Miller
La vita per Naaima non era mai stata facile.
La madre aveva deciso di partorirla in casa ma all’ultimo momento, sopraggiunte le doglie, si era fatta prendere dal panico e aveva strillato tanto che il padre non aveva potuto far altro che portarla di corsa all’Hadassa.
Un’ostetrica russa la trasse al mondo con mani ruvide e decise e le prime parole che udì furono pronunciate in una lingua ostile.
Le donne della famiglia biasimarono la pavidità della madre e per questo la bambina non fu mai pienamente accettata. Il nome impostole parve da subito una beffa.
Naaima crebbe solitaria e taciturna in un villaggio a est di Gerusalemme. All’età di quindici anni venne promessa in sposa a Mahzuz, un lontano cugino ben più vecchio di lei. I due non si amavano ma questo dettaglio non fu d’ostacolo alle nozze, che vennero celebrate senza sfarzo qualche tempo dopo.
Naaima si stabilì con il marito in un’ampia stanza nella casa della famiglia acquisita, all’altro capo del villaggio, non lontano dal torrente. Per un certo periodo provò qualcosa che assomigliava alla felicità. Le sue nuove parenti però la trattavano con freddezza. Per gli uomini della famiglia semplicemente non esisteva.
Un giorno di dicembre, cadeva una pioggia leggera, Naaima stava osservando assorta la sinuosa cupola sul monte della Città Vecchia quando la suocera entrò nella stanza senza bussare e, senza guardarla, le disse che Mahzuz era morto cadendo da un ponteggio.
Quel maledetto muro… – disse la vecchia voltandosi. Naaima non disse nulla. Al funerale non pianse una lacrima e al ritorno trovò le sue poche cose disposte ordinatamente sul letto e capì che doveva andarsene da quella casa.
La ragazza riempì un vecchio zaino e senza salutare nessuno si incamminò lungo il torrente. Guardò da lontano la casa della sua infanzia: la madre era morta poco dopo il suo matrimonio, il padre aveva sempre pensato a lei come ad una sciagura.
Giunta nei pressi degli ulivi si avvicinò alla città, costeggiò le alte mura dorate e arrivò nei pressi della grande porta verso sera.
La zia abbracciò in silenzio quella bambina invecchiata e la condusse sul tetto della casa, nel chiosco di legno e lamiera usato nella bella stagione: un letto con una trapunta celeste e un piccolo armadio verniciato della stessa tinta come unici arredi.
Seduta sul letto, sola, Naaima pianse, come al risveglio da un brutto sogno.
Il governo israeliano, che riconosceva l’importanza strategica di quell’immane costruzione, non si dimenticò di quella vedova e Naaima iniziò a ricevere un modesto assegno ogni mese. Teneva per sé pochi sheqel e il resto lo affidava alla zia: per la prima volta nella vita sentiva di non essere un peso per nessuno, per la prima volta si sentiva autorizzata ad esistere.
Oltre la splendida porta di Damasco, dalla sua minuscola dimora, Naaima poteva scorgere uno spicchio della grande cupola dorata alla quale ogni giorno indirizzava le sue preghiere.
Non aveva mai pensato seriamente all’esistenza di Dio ma quell’edificio l’aveva sempre affascinata. Sin da piccola, fantasticando, pensava custodisse qualcosa di speciale e pur senza mai formulare un pensiero esplicito iniziò ad associarvi le sorti del proprio destino.
Era andata alla grande moschea una sola volta, col padre, quando era piccolissima, e ne conservava un ricordo vago. Del vicino santuario invece, visitato fugacemente quello stesso giorno, ricordava tutto e anche dopo molti anni avrebbe potuto descrivere con sicurezza ogni increspatura dell’inusitato tappeto di roccia, i colori delle sterminate tarsie e l’odore pungente dell’olio delle lampade.
Così, un giorno, decise di tornare sulla spianata. Le guardie non la degnarono di uno sguardo, impegnate com’erano a redarguire indisciplinati turisti europei. Era da molto tempo che non usciva di casa da sola e quando si trovò di fronte al santuario tutta la sua intraprendenza svanì di colpo. S’immaginava oggetto di sguardi di riprovazione e avrebbe voluto tornare alla sua stanzetta ma si sentì mancare le forze.
Allora entrò nell’edificio da una porta socchiusa.
Dovette restare immobile alcuni istanti perché gli occhi si abituassero alla semioscurità che vi regnava.
Come accarezzate da sottili raggi colorati, scorse alcune donne intente a lustrare l’elaborata balaustra e altre ancora che pulivano minuziosamente il pavimento. Con sua sorpresa nessuna di queste badò a lei.
Seduta su di una panchetta di legno, Naaima si appoggiò al muro, socchiuse gli occhi e respirò profondamente quell’aria che sapeva di pioggia e detergente al limone. Con naturalezza una donna le si avvicinò e le porse uno strofinaccio…
Da allora Naaima prese ad andare al santuario ogni giorno. Usciva di casa la mattina presto, quando le botteghe del suq erano ancora chiuse, e attraversava la Città Vecchia con passo svelto. Col passare del tempo acquistò maggiore sicurezza ma il camminare sola per quegli stretti vicoli la metteva sempre a disagio e si sentiva tranquilla solo al riparo della grande cupola.
Naima aveva un cuore grande e col pretesto di far asciugare i pavimenti appena lavati era solita socchiudere un paio di porte per consentire a qualche infedele di sbirciare l’interno dell’edificio.
Un giorno, da uno di quegli ingressi, facendosi largo fra gli sguardi rapaci dei turisti, entrò con un balzo un esile gatto impaurito. La penombra che regnava nel santuario colpì l’animale come un bastone nodoso: per un attimo si arrestò come pietrificato poi, dopo alcuni istanti di smarrimento, si diresse lesto verso la panchetta e vi si accucciò sotto.
Era una creatura sgraziata, tutta pelle e ossa, ricoperta da una peluria rada color polvere.
Naaima si guardò intorno con circospezione: nessuna delle sue compagne pareva essersi accorta di quell’ospite inaspettato. Allora si avvicinò alla panca con naturalezza e l’animale, con sua sorpresa, non si mosse. Dalla sua borsa trasse un dattero: non aveva con sé che pochi frutti e dell’acqua.
Svelta ne addentò una metà, non stava bene mangiare in quel luogo, poi fingendo di riporre il nocciolo nella borsa, allungò la rimanente al gatto, quindi si voltò, con noncuranza.
Il cuore le batteva forte. Per tutta la mattina non osò voltarsi e stette china sul pavimento lavorando con maggior solerzia degli altri giorni. Terminato il proprio ufficio salutò le compagne e si diresse verso la panca. Si chinò, come per sincerarsi del laccetto di una scarpa e nel frattempo prender su la borsa: il gatto era sparito e con esso il mezzo dattero.
Sul volto della ragazza si disegnò un fugace sorriso. Era felice, come forse mai prima di allora.
Quanto sono sciocca, che Dio mi perdoni… felice, per un gatto! – pensava, eppure non poteva fare a meno di sorridere e quando riattraversò la porta della città le parve di esservi giunta volando.
Da quel giorno altre volte il gatto tornò a trovarla, ma in modo incostante quasi a voler affermare la propria indipendenza.
D’altronde non ho da offrirle che pochi datteri e qualche carezza – pensava Naaima, che ora però aveva un motivo in più per attraversare la città e andare al santuario.
Narek era il terzo di cinque fratelli.
Nacque una mattina di giugno al pianterreno di un’anonima abitazione in pietra e trascorse gran parte dei primi mesi di vita all’ombra degli enormi carrubi che ne ingombravano il cortile. Il ritmico stormire delle fronde dovette lasciare un indecifrabile segno nell’animo del bambino che a differenza dei coetanei sussurrava cantilenante i primi germogli di parola anziché strillarli trionfante.
Il carattere riflessivo e meditabondo parve spingerlo naturalmente verso gli studi cui si dedicò docilmente senza peraltro brillare in alcun campo.
Il cortile della scuola, silenzioso e discreto come tutto il quartiere, era sempre parso al bambino chiassoso e complicato. Si sentiva a disagio nel decifrare i codici non verbali dei compagni e spesso restava in disparte o si intrufolava, non visto, nella cattedrale di san Giacomo, ipnotizzato dagli arabeschi blu delle maioliche e ammaliato dal luccichio delle mille lampade di metallo e vetro colorato. Le funzioni religiose che vi si svolgevano gli sembravano oscure e incomprensibili ma le rosse vesti dei cantori, le lunghe barbe bianche dei vegliardi e gli inni solenni esercitavano sul piccolo Narek un fascino difficilmente descrivibile […]
Come è nata l’idea di questo libro?
Spesso, viaggiando, balenano nella mente effimere suggestioni, legate a luoghi o incontri. Il più delle volte, come sogni al risveglio, si dileguano rapide e per pigrizia o inettitudine di esse non riesco a conservarne memoria alcuna. Talvolta però, vincendo una naturale indolenza, mi sono appuntato qualche nota che, nel tempo, è servita da struttura per un racconto breve. I quattro scritti di questa breve raccolta sono accomunati da questo semplice processo compositivo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non particolarmente. Per fortuna, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, trovo che anche la fase di revisione del testo possa regalare qualche soddisfazione. La fortuna nel trovare (o credere di aver trovato) la parola adatta o la musicalità cercata spesso gratificano tanto quanto l’aver scovato l’idea alla base del racconto.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
J. Steinbeck, J. Conrad, J. Cheever, A. Munro, P. Levi, P.G Wodehouse, E. Waugh, M. de Cervantes, F. Rabelais…
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato e ancora risiedo in un comune della periferia torinese.
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sono stato, in passato, un autore (piuttosto prolifico) di testi narrativi dedicati alla primissima infanzia: ‘Betta la barchetta’, ad esempio, protagonista di innumerevoli avventure, è al centro di una vera e propria ‘saga’ che ha già originato una raccolta e alcune edizioni in inglese e francese… Il secondo volume della collana ‘Piccole storie per grandi viaggi’ è in cantiere da quasi un lustro…