Nell’aprile del 2019 esce “Le cose che bruciano”, il quarto romanzo di Michele Serra, giornalista classe 1954, edito da Feltrinelli. Il protagonista è Attilio Campi, un politico di mezza età che ha deciso di ritirarsi dalla scena pubblica per isolarsi in montagna, per conoscersi meglio e per capire alcune questioni della vita. [Read more…]
Thoreau. Vivere una vita filosofica: recensione del libro di Michel Onfray
Caterina Di Cesare recensisce "Thoreau. Vivere una vita filosofica" (Ponte alle Grazie, 2019)
Nel 2019 esce la traduzione italiana di “Vivre une vie philosophique. Thoreau le sauvage” di Michel Onfray, pubblicato in Francia due anni prima da Le Passeur.
L’edizione italiana, edita da Ponte Alle Grazie (marchio di Salani Editore) e tradotta da Michele Zaffarano, porta il titolo “Thoreau. Vivere una vita filosofica” e priva il lettore dell’aggettivo che nell’originale connota questo intellettuale americano dell’Ottocento, ovvero appunto “selvaggio”.
E proprio sulla direttrice della selvatichezza Onfray sviluppa il discorso intorno alla biografia e al pensiero di Thoreau, filosofo naturalista vissuto nel Massachusetts tra il 1817 e il 1862.
L’intero saggio è suddiviso in 5 capitoli e l’obiettivo di Onfray è rimarcare l’attualità di un intellettuale poco conosciuto, ma con idee forti e potenti. Perché sì: Thoreau non è uno scrittore noto ai più e questo è un peccato, specialmente nella nostra società fatta da superpotenze inquinanti da una parte e piccole Greta Thunberg dall’altra.
Questo libro servirebbe molto a chi sta dalla parte della seconda; dalla parte della natura, della semplicità, della frugalità. La parte di Thoreau, appunto, che già dalla metà dell’Ottocento gridava contro il progresso, contro il consumismo, contro il proto-capitalismo, in favore della disobbedienza civile per il recupero di una “vita più vera e più pura”: “credo fermamente nella semplicità […]. Semplificate il problema della vita, distinguete il necessario e il reale”, così parla Thoreau nello scambio epistolare con Harrison G. O. Blake.
Il libro di Onfray permette uno sguardo ampio ma chiaro anche per il neofita: grazie alla sua scrittura agile e chiara, il filosofo francese fa scorrere il discorso sulle pagine con leggerezza e al contempo con serietà, proponendo interessanti spunti di riflessione e approfondimento per chi fosse interessato. Onfray propone l’esempio di Thoreau che ha vissuto una “vita filosofica”, sperando che i lettori stessi comincino a vivere sul modello dell’americano.
Nel primo capitolo, intitolato “Che cos’è un grand’uomo”, si cerca di rispondere a questa domanda con riferimenti a filosofi del XIX secolo, Hegel e Carlyle in primis, e l’autore si sposta poi su un amico di Thoreau, Ralph Waldo Emerson, e sostiene che “il grand’uomo di Emerson coincide con il filosofo capace di sperimentare l’esultanza della comunione mistica con le forze più intime del mondo” (p. 21), ovvero Thoreau stesso: “il grand’uomo serve a incarnare il modello che noi tutti dobbiamo seguire; serve a contagiare con la sua esperienza; serve a generare altri grandi uomini. In altre parole, serve ad assicurare il progresso dell’umanità.” (p. 22). Thoreau è un grand’uomo e per questo va elogiato, ricordato e preso a modello.
Nel capitolo successivo, “Un autoritratto del suo futuro”, Onfray inizia il percorso biografico di Thoreau partendo dalla sua infanzia, sottolineando il fatto che sin da giovane esprime quei tratti che saranno tipici degli anni a venire; sin da bambino infatti dimostra di preferire passeggiare tra i boschi piuttosto che stare tra i banchi di scuola, ma al contempo è fortemente appassionato della lingua latina e di quella greca, che gli permettono di leggere libri che parlano di mondi lontani e selvaggi. Onfray cita alcuni testi scolastici che lo studente Thoreau aveva compilato su tracce dettate dagli insegnanti e conclude: “Qui si scopre l’autoritratto della persona che sarà perchè già è così. Thoreau propone un doppio movimento: rifiutare i falsi valori della civiltà […] e volere i veri valori della natura.” (pp. 35-6).
Nel terzo capitolo, intitolato “Un indiano tra i cowboy” Onfray sottolinea il lato da emarginato di Thoreau sia nei confronti della società in quanto massa sia nei confronti del gruppo di intellettuali cui si rivolgeva per discutere delle sue idee. In queste pagine sentiamo la forza di Thoreau nello spiegare come sia poco utile, per esempio, un trattato di Hegel rispetto a un manuale di apicultura, e come i primitivi e i selvaggi siano superiori alla civiltà contemporanea, e di come si sentisse profondamente romantico: amante della natura incontaminata, lettore di libri che non rientrano nel canone della tradizione letteraria e ricercatore dell’ascesi interiore.
Nel capitolo successivo, dal titolo “Una capanna trascendentale”, Onfray si chiede se Thoreau sia o meno trascendentalista, partendo dalle riflessioni teoriche di Emerson ed espone l’esperimento che Thoreau stesso descrive in “Walden. Vita nel bosco”.
Solo nel capitolo finale, intitolato “Il contro-attrito che ferma la macchina” viene affrontato il lato più verde di Thoreau; Onfray qui lo definisce “un ecologista che si oppone a quella che ancora non si chiamava la società dei consumi, che si oppone alla modernizzazione, all’onnipotenza della tecnica, all’offesa recata alla natura, ai gadget della modernità, all’onnipotenza dei soldi.” (p. 77)
In questa parte finale Onfray espone alcune tematiche che Thoreau ha affrontato nelle sue numerose conferenze e sottolinea il concetto secondo il quale bisogna “disobbedire per realizzare quello che ci sembra giusto” e “vivere contro tutto quello che impedisce di vivere per sé stessi”.
Thoreau è un selvaggio, un pacifista e un individualista, che ha lottato contro il sistema con la disobbedienza civile, con il peso della cultura e con le mani sporche di terra.
Un esempio per noi oggi e ringraziamo Onfray per aver dato voce a Thoreau, con la sua particolarissima sensibilità. “Thoreau. Vivere una vita filosofica” è un libro da leggere e rileggere, da studiare e da mettere in pratica.
Recensione inviata da Caterina Di Cesare
Edito da Ponte alle Grazie nel 2019 • Pagine: 107 • Compra su Amazon
È ancora possibile distinguersi dai più e plasmare la propria vita secondo le proprie convinzioni? Si possono ignorare vie precostituite, norme sociali e religiose, giudizio degli altri, per costruire la propria esistenza in accordo con le proprie e più intime esigenze? Con i propri ideali? La risposta di Michel Onfray è in questo breve e felice libro, in cui ci presenta - e ci indica come modello - la vita e le opere di Henry David Thoreau, ecologista ante litteram, apostolo della disobbedienza civile che avrà per continuatori Tolstoj, Gandhi, Martin Luther King, e soprattutto autore del celeberrimo "Walden", ovvero "Vita nei boschi". L'esistenza dello scrittore americano, percorsa istintivamente e intimamente dal desiderio di ritrovare una «relazione originale con l'universo», di eliminare tutto il superfluo dall'esistenza - all'insegna di un individualismo del tutto opposto all'egoismo cui viene comunemente equiparato - diviene così ispirazione esistenziale ma anche politica; in Thoreau il pensiero diventò azione e creò le condizioni di una vita autenticamente filosofica. Se i grandi uomini e le personalità eccezionali sembrano essere davvero passati di moda in un'epoca di solitarie folle livorose, Onfray ci ricorda che è proprio la loro perenne inattualità a costituirne la forza, e soprattutto il valore di esempio duraturo.
L’amore ai tempi del colera: recensione del libro di Marquez
Melania Massi recensisce "L'amore ai tempi del colera" (Mondadori)
Uno dei fiori all’occhiello dello scrittore e giornalista colombiano Gabriel Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera è un romanzo d’amore pubblicato in lingua spagnola nel 1985 ed edito in Italia da Arnoldo Mondadori Editore. L’intento dell’autore è “scrivere un romanzo del XIX secolo alla maniera del XIX secolo”, dopo aver vinto nel 1982 il premio Nobel e aver seminato nel mondo un prima ignoto interesse per la letteratura sudamericana. Cent’anni di solitudine del 1967 è stato consacrato alla fama parnassiana dal IV Congresso Internazionale della Lingua Spagnola, che l’ha ritenuto una delle opere letterarie in lingua più importanti, seconda soltanto al Don Chisciotte Di Cervantes. [Read more…]
Tu sei l’erba e la terra: recensione del libro di Antonia Pozzi
Rita Bompadre recensisce "Tu sei l'erba e la terra" (Garzanti)
“Tu sei l’erba e la terra” di Antonia Pozzi (Garzanti Editore, 2020) è una dichiarazione indistinta di solitudine sfumata nel disincanto dell’anima, appassionata e struggente, in un’unica e sconfinata poesia d’amore che la poetessa ha rivelato per tutta la sua breve vita. La nostalgia, l’arrendevole passione, la ritualità evocativa delle sue confessioni, sono il terreno propizio custodito nei versi, avvolti da un’apparente quiete di grazia e rassegnazione, assorbiti nell’essenza crepuscolare e nella dissolvenza espressionista della malinconia. Le parole, commosse ed orgogliose, sostengono la perdizione dell’assenza. [Read more…]
Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato: recensione
Andrea Zandomeneghi recensisce "Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato" di Davide Morganti (Wojtek edizioni)
Edito da Wojtek nel 2019 • Pagine: 111 • Compra su Amazon
La cornice: Nino Sciarra e suo fratello – rampolli di una ricchissima famiglia siciliana trasferitasi a Napoli – sono morti nella loro villa a Largo Patria. Un uomo (l’io narrante) è incaricato di recuperare i due cadaveri. Quello del secondo stava sotto una finestra, tra un mobile e una pila di giornali, quello del primo non si riesce a trovare. E così inizia un’allucinata catabasi nell’immensa abitazione (labirinto, archivio, cimitero, discarica, inferno) del morto stracolma della più disparata robaccia accumulata e stipata completamente alla rinfusa: “Prima di abbattere tutto bisogna recuperare il corpo, chi sa dove è finito. C’è puzza di chiuso, di umido, di piscio, di topi, di tempo, si fa fatica ad avanzare tra migliaia di oggetti buttati a caso in questa villa enorme, a tre piani e non so quante stanze”. […] Per la recensione completa di Andrea Zandomeneghi rimandiamo a Il foglio (versione cartacea) del 23 aprile 2020.I fratelli Sciarra, siciliani trapiantati a Napoli, sono morti. Un uomo ha il compito di entrare in casa e recuperarne i corpi. Uno dei cadaveri viene trovato subito; dell’altro non c’è traccia. Oltre la soglia dell’abitazione, cianfrusaglie accatastate, cicche di sigarette, spazzatura, cibo avariato e libri. Soprattutto libri. L’uomo viene inghiottito dalle stanze in cui vaga senza requie e si perde nelle pagine di autori dimenticati. Nel corso della sua vana ricerca, il mondo degli Sciarra prende corpo; quello in cui l’uomo vive, al contrario, perde consistenza, finché le due realtà si confondono con l’universo emerso dai libri. Un romanzo in cui divagare è il solo modo per perseverare nella ricerca. Dopo Caina (Fandango, 2009) e La consonante K (Neri Pozza, 2017), Davide Morganti scrive un’opera enigmatica, in bilico tra il reale e l’assurdo.
Cagliosa: recensione del libro di Giuseppe Franza
Paolo Altavilla recensisce "Cagliosa" (Ortica editrice, 2019)
Un romanzo sul calcio delle serie inferiori e sul grigiore della periferia napoletana, dove non esiste netta distinzione tra bene e male e dove la delinquenza è un fenomeno trasversale, che tocca tutti e contagia ogni animo.
“Cagliosa” è un romanzo composto in lingua coraggiosa e incisiva, uno speziato miscuglio di napoletano antico e contemporaneo, gergo tecnico calcistico e forme da prosa letteraria. Franza è uno scrittore che ha una sua inconfondibile voce, dote preziosa nel panorama del romanzo italiano. Si distacca dalla tradizione storica partenopea, dallo stile sentimentale della celebrata Elena Ferrante e dal realismo esasperato di Saviano per raccontare le inquietudini e le illusioni della strada, tra giovani che considerano il futuro qualcosa di troppo lontano e che hanno poca coscienza del passato. I protagonisti di “Cagliosa” vivono in un presente fatto di normali paradossi e di eterni rischi. Giocano a calcio per sfogare la loro aggressività, interpretano ogni partita come una battaglia, dove tutto può succedere.
Proprio seguendo partita dopo partita il campionato di una squadra di provincia iscritta a un torneo minore si entra a contatto con la vita disordinata di personaggi dai soprannomi ridicoli e dai trascorsi spesso spaventosi. Potrebbero assomigliare ai ragazzi di vita di Pasolini, se non fosse per la fredda disperazione che anima i caratteri presenti nelle pagine di “Cagliosa”. Nella periferia napoletana raccontata da Franza non c’è spazio per la spensieratezza o per i sogni di grandezza. Anche il gioco si trasforma in un’esperienza di violenza e cattiveria, tutti si mostrano rabbiosi e cinici per non passare per vittime.
Il calcio viene raccontato come un inutile e confuso affanno, un insensato sforzo di prevaricazione su nemici apparenti. In “Cagliosa” i calciatori “giocano a far male”, non gioiscono per la vittoria ma per l’offesa inflitta all’avversario. Una metafora della vita follemente competitiva ed esagitata dei tempi attuali?
Recensione inviata da Paolo Altavilla
Edito da Ortica editrice nel 2019 • Pagine: 324 • Compra su Amazon
Giovanni detto Vangò ruba motorini per conto di un carrozziere e nel tempo libero gioca a calcio nella squadra del suo quartiere: il Rione Incis Club, formazione di dilettanti iscritta al girone C della Terza Categoria provinciale napoletana. Ventidue sono le partite del torneo, e ventidue sono i capitoli del libro, attraverso cui Giovanni misura i propri limiti e il suo abbrutimento, subendo l'inutile ferocia dei compagni di squadra, l'ottusità dell'allenatore, i vincoli di un'esistenza da schiavo. Qualcosa sembra cambiare il giorno in cui incontra una bella giornalista sportiva, la sua nuova, impossibile ossessione. Stimolato da un sentimento inedito, il ragazzo comincia a rendersi conto di dover evolvere. Ma come? Sullo sfondo, prosegue il campionato della Incis, tra risse, scorrettezze, acide rivalità, figuracce e futili rivalse. Non ci sono campioni né sportivi, e ogni personaggio rivela senza vergogna la propria deficienza morale. Ciononostante, lontani dai riflettori, su campi polverosi e invasi dall'erbaccia, Giovanni e compagni combattono per resistere alla forza centrifuga del non senso, per sopravvivere a loro stessi.
Sensitive: recensione del libro di Vivian Ley
La recensione dell'antologia di racconti pubblicata di recente da Porto Seguro Editore
La recensione di Sensitive firmata da Orlando Nortom
Sensitive di Vivian Ley è un libro che merita di raggiungere un pubblico internazionale. [Read more…]
Racconti di Juarez del Sud: recensione del libro di Luca Mignola
Andrea Zandomeneghi recensisce Racconti di Juarez del Sud (Wojtek Edizioni)
Edito da Wojtek nel 2019 • Pagine: 97 • Compra su Amazon
“Può esistere un labirinto, senza il suo mostro, il suo aborto, la sua danse macabre?” No, non può esistere e infatti la città labirinto di Juarez del Sud incuba nelle proprie fogne – labirinto nel labirinto – la Morgue (con “le sue ali che si dibattono al suolo, le zampette che scalciano l’aria, il verso di agonia e piacere che intona con le chele della bocca, terrore di tutte le creature dal corpo molle”) e gli tributa un sacrificio di sangue annuale. Ma il labirinto è l’intero libro, il libro stesso, in cui tutto si frammenta – frammenti (labirintici, ognuno ha il suo mostro) sbattuti in primo piano sono i racconti, ma frammenti sono anche i brevi capitoli (e addirittura i paragrafi) che i racconti compongono: l’ellissi domina tirannica su tutto – e si contraddice obliquo abolendo la struttura e al contempo postulandola. Il labirinto – e quindi la città che, lungi dal ridursi a essere contesto, è la protagonista del testo – è insolubile, il labirinto non è mai un problema, è un mistero e insegna Kerényi che “un problema si deve risolvere e, una volta risolto, scompare. Un mistero invece deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita. Un mistero che possa essere chiarito, risolto con una spiegazione, non è mai stato tale”. E così il lettore s’immerge nelle laide e turpi atmosfere di Juarez del Sud – dove il fetore regna sovrano – e le sperimenta intridendosene. La città è un luogo del male, della degenerazione, dell’incubo, dell’oblio, della violenza (addirittura la defenestrazione è una prassi politico-istituzionale), abitata da ombre, predoni, idoli, assassini senza memoria, naufraghi, puttane, zingari, dannati, turbe di facinorosi, genti lobotomizzate, sgorbi con la coda e le mani palmate.In una città di confine, Juarez del Sud, si lotta per il potere. I contendenti sono grotteschi, malvagi, talvolta insignificanti: uomini e mostri che cercano, con la violenza dei gesti o con quella delle parole, di dominare la città. Ma Juarez del Sud è indomabile e ogni tentativo di abbracciare con lo sguardo le forze che la abitano è un aborto - ogni aborto una disperazione, ogni disperazione una vertigine del desiderio che spinge i contendenti a continuare a tentare. Ed è da uno sbuffo del desiderio che viene fuori una prospettiva, un altro luogo, la città impossibile: Janka sul confine, prima città dionisiaca della Storia. I racconti spingono per frammentarsi e moltiplicarsi: accade così una proliferazione di storie che vogliono parlarsi e che finiscono per generare versioni differenti e spesso contrastanti dello stesso evento. Così, ogni racconto del libro è una forma chiusa e a sé stante e allo stesso tempo una forma aperta e comunicante. Nei temi come nella forma Racconti di Juarez del Sud narra l'impossibilità e la necessità della costruzione. "Questo è il modo in cui accadono le cose, tutto si dispiega davanti agli occhi dell'osservatore, che non vede niente".
Centrale è il racconto eponimo della raccolta in cui un nonno narra storie – di Juarez del Sud – ai nipoti e a cui sono affidate le riflessioni metaletterarie: “capimmo la natura di quei racconti. Erano frammenti della sua vita, epifanie dell’attimo e del ricordo, sempre slegati dal nostro contesto familiare. Racconti in frammenti liberi da ogni forma prescritta. Così il nonno ci stava insegnando a educare l’intuizione”. E i nipoti ascoltano quelle storie e per non dimenticarle – la memoria è un’ossessione che percorre il testo tutto – le scrivono e le riscrivono. È un libro colto, anzi coltissimo, che mescola la lezione di Kafka con la fantascienza e la distopia, le suggestioni mitologiche (la ninfa Calipso, la Pizia, l’Erebo) con quelle filosofiche (Hegel) e letterarie (Rimbaud); è un libro breve e denso, esigente e generoso che mostra una realtà deturpata e che ha la consistenza profetica e impalpabile di un responso oracolare interpolato.
Teorie della comprensione profonda delle cose: recensione del libro
Andrea Zandomeneghi recensisce "Teorie della comprensione profonda delle cose" di Alfredo Palomba
Edito da Wojtek nel 2019 • Pagine: 500 • Compra su Amazon
«Del resto, ormai, io stesso tendo a considerare la quasi totalità degli esseri umani alla stregua di materia atomica inerte e a non provare alcun tipo di empatia per le persone» scrive il Pelato su Teorie della comprensione profonda delle cose, il blog di «esplorazione delle oscenità umane» dove pubblica post antinatalisti che inneggiano al Movimento per l’estinzione umana, speculazioni pessimistico-leopardiane, aneddoti macabri e raccapriccianti, riflessioni sulla morte, materiale Facebook preso dalle bacheche altrui combinato grottescamente con foto di morti, pornografia, escrementi. Il Pelato – che si chiama Alfredo e ha un dottorato in letterature comparate come l’autore del romanzo – dà ripetizioni a Max, un dodicenne intellettivamente superdotato che nasconde la propria genialità a genitori e insegnanti; è attraverso la lettura in estratto dei temi – veri e propri saggi eruditi di centinaia di pagine – scritti dal ragazzino che veniamo a conoscenza della storia di Paesone – il centro urbano in cui è ambientato il romanzo – o della vita e delle opere di Athanasius Kircher gesuita tedesco del XVII secolo affetto da una forma strabiliante e parossistica di polimatia. Don Pagnotte è un tossico che a forza di mangiarsi funghetti allucinogeni in tutte le salse e di leggere compulsivamente il Don Chisciotte della Mancia si convince di essere a sua volta un cavaliere errante. Toni è un ex amico del Pelato, un ex collega di università, che – roso dall’invidia per il voto di laurea più alto e per il dottorato di questi – in un prolungato e destrutturante delirio narcisistico si crede poeta e romanziere e intraprende nel modo più comico e penoso la via della carriera letteraria. L’uomo vuoto è un trentacinquenne disturbato («Gli altri sono come fantasmi, li avverto trasparenti se non quando utilizzano un manubrio che in quel momento mi serve oppure occupano uno spazio o un macchinario di cui ho bisogno. Allora devo parlare con loro, devo guardarli in faccia. Allora assumono una forma, mi obbligano al dialogo, mi violentano. Qui corpi e quei cervelli mi disgustano ma devo resistere […]. Interagire con loro per me è la fatica maggiore; entrare in contatto con quel mondo è il supplizio peggiore di tutti») che non ha terminato il liceo, non ha una donna, non ha un lavoro e vive con i soldi della madre. L’intrecciarsi delle vicende di questi personaggi va a indagare e frugare con sorprendente lucidità ed eleganza – da sottolineare la matura e profonda consapevolezza stilistica – gli anfratti e le pieghe del nichilismo – con i corollari dell’anaffettività, del cinismo e della psicosi – contemporaneo in una prospettiva talvolta caricaturale e parodistica, sempre spietata.Il ricordo di un’antica torre aleggia sulla città di Paesone e sulla Valle del fiume Scafato. Questo segno di un mondo remoto – un sogno, un’epifania, un varco – domina lo scenario in cui si muovono personaggi apparentemente lontani l’uno dall’altro: l’autore di un blog anonimo, un ragazzino geniale, un aspirante poeta, un tossicodipendente che crede di essere un cavaliere errante, un trentacinquenne disturbato. Irregolari e dissonanti, ciascuno diretto verso un personale orizzonte degli eventi, i protagonisti appaiono fedeli solo alla verità del loro stesso sguardo: come ammassi stellari, procedono esibendo le proprie certezze – la propria particolare geometria – "circondati da segni da decifrare e mettere insieme per provare a ricomporre il mosaico e acquisire una visione il più globale possibile, che riveli il senso, la teoria della comprensione profonda delle cose".
La recensione di Estasi: istruzioni per l’uso
Andrea Zandomeneghi recensisce "Estasi: istruzioni per l’uso ovvero l’arte di perdere il controllo" di Jules Evans
Edito da Carbonio Editore nel 2018 • Pagine: 313 • Compra su Amazon
Il vivere civile ci impone costantemente di controllarci, inibire gli impulsi, gestire le emozioni. Ma a volte il Sé che edifichiamo su paure, obblighi e censure ha bisogno di spogliarsi per entrare in comunione con qualcosa di più grande - la natura, l'universo, l'umanità. Non tutte le esperienze estatiche però sono rigeneranti: a volte, invece di migliorarci la vita, ci danneggiano. In che modo quindi è opportuno lasciarsi andare? Quale strada scegliere per raggiungere la trascendenza? Dopo un lungo periodo di ferrea adesione ai principi stoici, il filosofo Jules Evans ha deciso di superare i confini della sua comfort zone e intraprendere un vero e proprio tour delle esperienze estatiche. Ha partecipato a un festival sul tantrismo, a un ritiro di meditazione Vipassana e a un pellegrinaggio rock; è diventato adepto di una chiesa carismatica, si è dato al gospel, all'onironautica, alle scienze psichedeliche, si è iscritto a un workshop di Danza dei 5 ritmi. Questo saggio ben documentato e originale è la sintesi della sua ricerca: un viaggio nel Festival dell'Estasi in cui ciascun capitolo-padiglione offre un'esperienza travolgente e prolifica.
Recensione
«Nell’uomo» scrive Huxley «coesistono due bisogni radicalmente opposti, quello di autoaffermazione e quello di autotrascendenza. Gli uomini desiderano intensificare la coscienza di essere ciò che essi considerano ‘se stessi’, ma desiderano anche – e lo desiderano molto spesso con irresistibile violenza – la coscienza di essere qualcun altro. Insomma essi bramano di uscire da se stessi, di oltrepassare i limiti di quel minuscolo universo-isola entro il quale ogni individuo si trova confinato». Come osserva Evans (studioso del pensiero stoico e affermato giornalista che da anni si occupa di psicologia e filosofia per numerose testate inglesi e americane) infatti «può risultare estremamente estenuante restare completamente rinchiusi nel Sé che ci siamo costruiti». Ed ecco che giunge in soccorso di questa istanza antiegocentrata l’estasi: ékstasis, antico temine greco che significa letteralmente ‘trovarsi al di fuori di se stessi’. O meglio giungerebbe in soccorso se «la modernità laica non ci avesse costretti all’interno delle mura del Sé razionale, sconnesso dalla mente subliminale, dal corpo, dal prossimo, dal mondo naturale e (probabilmente) da Dio».
È innegabile che nelle società occidentali sia venuta in parte meno – con il ’68 e più in generale con la spiritualità new age – la repressione delle cosiddette esperienze mistiche ad opera d’un ortodossia psichiatrica retrograda e che inoltre le persone tendano a parlare di sacro più apertamente (quando la società di ricerca Gullup chiese agli americani se avessero avuto un’esperienza mistica, nel 1962 solo il 22% rispose affermativamente, nel 1994 la percentuale salì al 33% e nel 2009 al 49%). Ma Evans ammonisce: «il rischio di questo slittamento culturale, tuttavia, è che la nostra spiritualità post-religiosa diventi ‘tutta esperienza’, scadendo in una sorta di ricerca del brivido di stampo consumistico». Ciò che manca dunque è un inquadramento etico, una cornice valoriale condivisa, «spazi controllati in cui annullare il proprio Io in tutta sicurezza», dove poter porre in essere la vivificante arte di perdere il controllo a cui fa riferimento il titolo di questo testo dalla scrittura piana e aggraziata, che procede lineare, senza spigoli, accompagnandoci in una serie – quasi una galleria – di esperienze estatiche esperite da Evans stesso nel corso della sua vita: dall’adesione a una comunità cristiana carismatica (dove «come un incendio fuori controllo, il risveglio si diffondeva […], e di nuovo la gente sarebbe stata travolta dall’eccitazione religiosa, dalla sensazione di vivere un momento straordinario, forse perfino la fine dei tempi»), al mondo degli psichedelici («la nostra ego-coscienza agisce come una valvola di riduzione, una porta verso il mondo enorme del nostro inconscio, e ci permette così di concentrarci sulla sopravvivenza quotidiana e sull’interazione sociale. Gli psichedelici aprono le porte di questa di questa resistenza interiore»), al cinema, alla musica, al romanzo, all’arte, al teatro (talché «l’aggettivo che più spesso vi si applica è transporting: ti trasporta, tira fuori da questo mondo, e ti conduce in un Altro Mondo»), alla meditazione Vipassanā (annullare la mente svuotandola dalle formazioni mentali), alla danza («e io scopro di essere entrato nella trance. […] Ho gli occhi lucidi, le pupille dilatate, la mente è aperta, la barriera tagliafuoco del senso critico è stata abbattuta e il sistema nervoso autonomo è in connessione con la musica»), alle pratiche tantriche, all’immersione nell’ecologia profonda, alla realtà virtuale aumentata.
Andrea Zandomeneghi
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