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La recensione di Estasi: istruzioni per l’uso

Andrea Zandomeneghi recensisce "Estasi: istruzioni per l’uso ovvero l’arte di perdere il controllo" di Jules Evans

Ultimo aggiornamento: 2 Dicembre 2019 by LibriStaff

La recensione di Estasi: istruzioni per l’usoEstasi: istruzioni per l'uso ovvero L'arte di perdere il controllo
Edito da Carbonio Editore nel 2018 • Pagine: 313 • Compra su Amazon

Il vivere civile ci impone costantemente di controllarci, inibire gli impulsi, gestire le emozioni. Ma a volte il Sé che edifichiamo su paure, obblighi e censure ha bisogno di spogliarsi per entrare in comunione con qualcosa di più grande - la natura, l'universo, l'umanità. Non tutte le esperienze estatiche però sono rigeneranti: a volte, invece di migliorarci la vita, ci danneggiano. In che modo quindi è opportuno lasciarsi andare? Quale strada scegliere per raggiungere la trascendenza? Dopo un lungo periodo di ferrea adesione ai principi stoici, il filosofo Jules Evans ha deciso di superare i confini della sua comfort zone e intraprendere un vero e proprio tour delle esperienze estatiche. Ha partecipato a un festival sul tantrismo, a un ritiro di meditazione Vipassana e a un pellegrinaggio rock; è diventato adepto di una chiesa carismatica, si è dato al gospel, all'onironautica, alle scienze psichedeliche, si è iscritto a un workshop di Danza dei 5 ritmi. Questo saggio ben documentato e originale è la sintesi della sua ricerca: un viaggio nel Festival dell'Estasi in cui ciascun capitolo-padiglione offre un'esperienza travolgente e prolifica.

Recensione

«Nell’uomo» scrive Huxley «coesistono due bisogni radicalmente opposti, quello di autoaffermazione e quello di autotrascendenza. Gli uomini desiderano intensificare la coscienza di essere ciò che essi considerano ‘se stessi’, ma desiderano anche – e lo desiderano molto spesso con irresistibile violenza – la coscienza di essere qualcun altro. Insomma essi bramano di uscire da se stessi, di oltrepassare i limiti di quel minuscolo universo-isola entro il quale ogni individuo si trova confinato». Come osserva Evans (studioso del pensiero stoico e affermato giornalista che da anni si occupa di psicologia e filosofia per numerose testate inglesi e americane) infatti «può risultare estremamente estenuante restare completamente rinchiusi nel Sé che ci siamo costruiti». Ed ecco che giunge in soccorso di questa istanza antiegocentrata l’estasi: ékstasis, antico temine greco che significa letteralmente ‘trovarsi al di fuori di se stessi’. O meglio giungerebbe in soccorso se «la modernità laica non ci avesse costretti all’interno delle mura del Sé razionale, sconnesso dalla mente subliminale, dal corpo, dal prossimo, dal mondo naturale e (probabilmente) da Dio».

È innegabile che nelle società occidentali sia venuta in parte meno – con il ’68 e più in generale con la spiritualità new age – la repressione delle cosiddette esperienze mistiche ad opera d’un ortodossia psichiatrica retrograda e che inoltre le persone tendano a parlare di sacro più apertamente (quando la società di ricerca Gullup chiese agli americani se avessero avuto un’esperienza mistica, nel 1962 solo il 22% rispose affermativamente, nel 1994 la percentuale salì al 33% e nel 2009 al 49%). Ma Evans ammonisce: «il rischio di questo slittamento culturale, tuttavia, è che la nostra spiritualità post-religiosa diventi ‘tutta esperienza’, scadendo in una sorta di ricerca del brivido di stampo consumistico». Ciò che manca dunque è un inquadramento etico, una cornice valoriale condivisa, «spazi controllati in cui annullare il proprio Io in tutta sicurezza», dove poter porre in essere la vivificante arte di perdere il controllo a cui fa riferimento il titolo di questo testo dalla scrittura piana e aggraziata, che procede lineare, senza spigoli, accompagnandoci in una serie – quasi una galleria – di esperienze estatiche esperite da Evans stesso nel corso della sua vita: dall’adesione a una comunità cristiana carismatica (dove «come un incendio fuori controllo, il risveglio si diffondeva […], e di nuovo la gente sarebbe stata travolta dall’eccitazione religiosa, dalla sensazione di vivere un momento straordinario, forse perfino la fine dei tempi»), al mondo degli psichedelici («la nostra ego-coscienza agisce come una valvola di riduzione, una porta verso il mondo enorme del nostro inconscio, e ci permette così di concentrarci sulla sopravvivenza quotidiana e sull’interazione sociale. Gli psichedelici aprono le porte di questa di questa resistenza interiore»), al cinema, alla musica, al romanzo, all’arte, al teatro (talché «l’aggettivo che più spesso vi si applica è transporting: ti trasporta, tira fuori da questo mondo, e ti conduce in un Altro Mondo»), alla meditazione Vipassanā (annullare la mente svuotandola dalle formazioni mentali), alla danza («e io scopro di essere entrato nella trance. […] Ho gli occhi lucidi, le pupille dilatate, la mente è aperta, la barriera tagliafuoco del senso critico è stata abbattuta e il sistema nervoso autonomo è in connessione con la musica»), alle pratiche tantriche, all’immersione nell’ecologia profonda, alla realtà virtuale aumentata.

Andrea Zandomeneghi

Andrea Zandomeneghi
Andrea Zandomeneghi abita Capalbio (GR) ed è nato nel 1983. Si è occupato a livello universitario in un primo tempo di psicologia, per poi dedicarsi allo studio del diritto. Al contempo però scrittura (romanzo, saggistica, editing e correzione di bozze) e lettura (in questo periodo la sua dieta prevede come piatti forti – da mangiare, digerire e rimangiare – Roberto Bolaño, Mircea Eliade e C. G. Jung) hanno sempre rivestito e continuano a rivestire una posizione di assoluta centralità nella sua proteiforme e sciagurata esistenza. Ciclotimico. Tracotante cefalgico, giacché ebbe a mangiare Metis non essendo un dio; nella fanciullezza ha scritto per filosofico.net e poi ha diretto l’ormai defunta rivista Gli analfabeti – uno sguardo nel caos; nel 2015 ha svolto il ruolo di giudice nel Concorso di poesia Il bene di scrivere un male indicibile, dal quale è poi scaturita la pubblicazione dell’omonimo libro. Ha codiretto la rivista letteraria CrapulaClub e collabora con Zest – Letteratura Sostenibile. “Il giorno della nutria” è il suo primo romanzo.

Categoria: RecensioniTag: andrea zandomeneghi, recensione

Il cavaliere d’inverno: recensione del romanzo di Paullina Simons

Valentina Colombo recensisce "Il cavaliere d'inverno" di Paullina Simons (Rizzoli, 2003)

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by LibriStaff

Recensione di Il cavaliere d'inverno

La recensione di Valentina Colombo

Una stella brillante che conduce all’infinito racchiusa in una città circondata dal sangue. Tatiana e Alexander, una ragazza russa ancora innocente e un affascinante soldato dell’Armata Rossa, si incontrano in una strada deserta di Leningrado il 22 giugno 1941, poche ore dopo che l’Unione Sovietica è entrata in guerra contro la Germania.
Per descrivere l’emozione e l’ammirazione che mi ha suscitato la lettura di questa storia d’amore mi servirebbero troppo tempo e spazio, perciò mi limito a dire che con “Il cavaliere d’inverno”, seguito da “Tatiana & Alexander” e “Il giardino d’estate”, Paullina Simons ha ammaliato tutte le sue lettrici. Nel 2000, quando è uscito il primo volume della trilogia, Paullina era già amata in tutto il mondo, ma la passione e l’entusiasmo che ha messo nello scrivere questa storia hanno reso Tatiana e Alexander i suoi cavalli di battaglia; forse perché c’è una parte del suo passato intrappolata nella trama: infatti, Paullina è nata a Leningrado nel 1963 e si è trasferita in America con la sua famiglia all’età di dieci anni. Adesso vive a New York, tra le attenzioni da suddividere fra i suoi figli e i suoi fan; quest’estate ha tenuto dei tour in Inghilterra e in Australia per presentare il suo nuovo libro, “The tiger catcher”. Tuttavia, sta ancora ricevendo i molto apprezzati complimenti per l’impareggiabile trilogia, ricca di sentimento, ma anche di descrizioni storiche riguardanti una città che non sempre viene ricordata come, invece, merita.
L’amore di Tatia e Shura, diminutivi dei due protagonisti, è una nuvola soffice, una bomba prorompente, più luminosa del sole. Ho apprezzato particolarmente i loro sguardi, descritti attentamente dall’autrice, nei quali si rivela un trasporto profondo e violento. Ma qualcosa eclissa i loro sentimenti, i loro sorrisi, le loro vite: la guerra. Fin dall’antichità, fin dal grande Impero Romano, all’inizio di una guerra ogni Paese pensava che si sarebbe esaurita in fretta, nel giro di pochi mesi; anche Tatiana è sconcertata dalla quantità di provviste che si è procurata la sua famiglia e si rifiuta di acquistare il carburante per la stufa: sicuramente in inverno quel momento sarebbe stato un ricordo lontano, sfumato. Tuttavia presto Leningrado viene circondata, assediata dai tedeschi. Una circonferenza perfetta, un sole rinchiuso tra le nuvole. Hitler non è come Stalin, non è pronto a sacrificare tutti i suoi uomini, si limita a far morire di fame e di freddo la popolazione russa. Il cibo a ottobre scarseggia, ma a gennaio le scorte sono esaurite e nel pane delle razioni giornaliere è presente molta più segatura che farina. L’inattaccabile città russa, difesa dall’inarrestabile Armata Rossa, si trova nella stessa situazione in cui si trovò la polis di Atene durante la guerra del Peloponneso, quando i cittadini ateniesi si rifugiarono all’interno delle mura, per volere della politica attendista di Pericle, finché non scoppiò un terribile epidemia.
Sullo sfondo una famiglia ingrata, in cui la figlia minore viene picchiata; il dolore di due genitori, al culmine della propria intensità, spinge a pregare Dio che la morte prenda Tatiana, non il loro unico ragazzo. Il comunismo ha formato entrambi: lei, ignara di cos’altro esiste, ma costretta a vivere in un appartamento comune, senza nemmeno un regalo di compleanno; lui, che ricorda con nostalgia i bagni privati, le docce calde, la privacy e solo con un sogno: l’America. È vero che bisogna amare se stessi per riuscire a fare lo stesso con il prossimo, ma penso che a volte sia proprio l’amore che ci permette di conoscerci del tutto. Il destino li ha donati l’uno all’altra, perché ognuno scoprisse se stesso e la propria definizione di amore.
Paullina Simons ha il dono straordinario di fondere l’amore con la storia, mettendo in evidenza entrambi; un linguaggio energico, passionale, a volte straziante, racconta come la neve ricopra anche i cuori di Tatiana e Alexander, facendo bruciare ancora di più il dolore causato dalla fame, sia di cibo sia l’uno dell’altra. Lo struggimento trapela dalle pagine del libro, la sofferenza di chi sente che non può vivere senza un’altra persona, come se loro due fossero il tronco di un albero dipendente dalle foglie e viceversa. L’immensità dell’universo è alle porte, ma l’uscita è bloccata dalla brama di potenza degli uomini. Shura, un maggiore nutrito a sufficienza, sorregge e protegge la sua Tatia dai pericoli incombenti, descritti con distacco e passione contemporaneamente. Nelle pagine si riscontrano numerosissimi particolari, che all’apparenza risultano insignificanti, ma hanno un potere inimmaginabile: leggendo si pensa di essere in una Leningrado assediata e quando ci si sveglia dal sogno a occhi aperti ci si chiede come sia possibile avere le dispense della cucina piene di provviste. Alexander afferra Tatiana al volo quando scivola sulle scale ghiacciate, le regala una pistola perché si difenda dai cannibali con gli occhi colmi di follia, ferma i pugni del padre e della sorella che la stanno per colpire; la trascina su una slitta, tra le strade di una Leningrado massacrata, quando non riesce nemmeno a tenere gli occhi aperti, sussurrandole che la ama, che deve sopravvivere per lui. E Tatiana apre gli occhi per Alexander, perché il suo amore può ridarle la grande energia di cui necessita lei, una piccola stella, per continuare a brillare; il suo amore la induce a dirigersi verso la luce degli edifici che bruciano, distrutti dalle bombe, per riscaldarsi. I crampi allo stomaco, il sangue che esce dalla bocca, il corpo che si restringe e rifiuta di obbedire ai comandi sono soltanto disturbi fisici. Tatiana, che ogni giorno vede la morte sul volto delle persone a lei care e sui corpi abbandonati in strada o davanti all’ingresso del cimitero, e Alexander, che sente il fragore continuo delle bombe che scoppiano, desiderano solamente essere isolati in una bolla di sapone dai colori dell’arcobaleno; forse, in fondo, è meglio la morte: silenzio, calma, benessere. Entrambi sanno che le loro anime voleranno in un rifugio comune, in un prato vicino al fiume che scorre nel bosco.
Qual è l’ordine dell’amore? La famiglia o l’amante? Una domanda scomoda, ma importante, che il libro pone ripetutamente. Infatti nell’animo lascia qualcosa di più di una conoscenza storica: uno stile di vita, dei principi. Fra questi ultimi io ritengo che quelli fondamentali siano l’amore ed il fatto che la vita valga sempre la pena di essere vissuta, comunque essa sia.
Durante quella terribile guerra, la seconda che coinvolse l’intero mondo, i civili, russi, tedeschi, inglesi, italiani, francesi, non erano arrabbiati con il nemico o determinati a vincere, ma stanchi. Anche Tatiana e Alexander lo erano, per questo cercarono rifugio in Dio, non per chiedere la fine della vita, bensì l’inizio di una nuova. Lei recitava un verso sopra i corpi freddi dei suoi familiari: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Era l’unica parte della preghiera che conosceva, ma sperava che a Dio bastasse. Perché anche se lei e tante altre persone erano sole, affamate e senza una via di fuga, c’era una sola cosa che non avrebbe mai ceduto alla morte: la speranza. La speranza di sorridere ancora una volta, di vivere di nuovo, di continuare ad amare.

Il cavaliere d’inverno: recensione del romanzo di Paullina SimonsIl cavaliere d'inverno
Edito da Bur nel 2003 • Pagine: 700 • Compra su Amazon

Leningrado, estate 1941. Tatiana e Dasha sono sorelle e condividono tutto, perfino il letto, nella casa affollata dove vivono con i genitori. Una mattina il loro risveglio è particolarmente agitato: Dasha ha un nuovo innamorato e non vede l'ora di raccontare tutto a Tatiana. Ma un annuncio alla radio manda di colpo in pezzi la loro serenità: il generale Molotov sta comunicando che la Germania ha invaso la Russia. È la guerra. Uscita per fare scorte di cibo, Tatiana incontra Alexander, giovane ufficiale dell'Armata Rossa, e tra loro si scatena un'attrazione irresistibile. Ancora non sanno che quell'amore è proibito per entrambi e potrebbe distruggere per sempre ciò che hanno di più caro. Mentre un implacabile inverno e l'assedio nazista stringono la città in una morsa micidiale, riducendola allo stremo, la dolce Tatiana e il valoroso Alexander troveranno nel legame segreto che li unisce la forza per affrontare avversità e sacrifici. Con la speranza di un futuro migliore.

Recensione inviata da Valentina Colombo

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Anselmo Bucci – Il pittore volante: recensione del libro

Annalina Grasso recensisce "Anselmo Bucci - Il pittore volante" (Silvana, 2006)

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by LibriStaff

Anselmo Bucci è stato tra gli artisti di guerra, una delle figure più importanti nel panorama culturale italiano, soprattutto per quanto riguarda la tecnica dell’incisione. Non tutti però sanno che Bucci è stato anche un valido scrittore, nella fattispecie, autore del catalogo Il pittore volante, vincitore del Premio Viareggio nel 1930.

Il pittore volante è un libro che si gusta, si centellina ma non solo perché è costituito in gran parte da aforismi, piuttosto in virtù dei paradossi estrosi ricchi di concentrata verità. Leggendo l’incrocio di sentenze, il contrasto dei punti di vista e delle verità affermate, si ha l’impressione di far resuscitare la figura di Bucci, un moralista, un uomo di mondo, un artista, uno schermidore di classe al contempo parigino e italiano. Solo in apparenza di può pensare di trovarsi di fronte ad una figura piacevole: in realtà questa è la scorza di Bucci, la sua vernice. In profondità c’è una realtà nient’affatto jolie, una realtà seria, dolorosa, triste, come emerge dalle pagine del Pittore volante, dove si canta l’amore dell’autore per Rembrandt. Infatti dopo aver descritto con un’aderenza rapida e scolpita le figure e l’effetto della “Ronda di notte”, il dipinto del celebre artista olandese, Bucci esclama: “Gran bell’arte la pittura. La pittura è l’immediata fra le arti; è magica perché crea le luci, è umile perché popola la memoria più rude, è generosa perché col fango della strada crea le gemme e le dà. La pittura è bella”. E poi, come in una contrazione di tristezza, celata da un tono di spavalderia, alla quale sembra non credere neppure lui sospira: “Peccato, è un’arte perduta da due secoli”.

Di grande interesse risulta anche il capitolo “Angoscia” dove viene descritto l’inferno dell’artista moderno e una brutta giornata che arriva solo a quelli che si buttano sul lavoro con perduta passione, per poi risalirne nauseati, spossati nell’intimo.

Il pittore volante ci consegna anche un Bucci epigrammista e butadista sulle donne, sull’amore, sulle mostre d’arte, sui visitatori borghesi, il quale non perde mai occasione per confessare il suo sconfinato amore per l’Arte. Dell’animo delle donne Bucci ha un fiuto istintivo, dei costumi cogli con un tratto, con una sola immagine, la vibrazione, la linea, l’intima sostanza.

Bucci maneggia la penna come se avesse in mano il pennello. Adoperando con estrema efficacia e chiarezza le parole, sebbene non abbia un ricco vocabolario: la sua frase è nuda, semplice; aggredisce l’oggetto, incapsula l’immagine con precisione e sobrietà senza perdersi in giri eleganti di parole.

Recensione a cura di Annalina Grasso

Annalina Grasso è una giornalista pubblicista nata a Benevento. Si è laureata in Lettere moderne all’Università Federico II di Napoli con una tesi su Giacomo Debenedetti interprete di Marcel Proust e si è specializzata in filologia moderna a indirizzo linguistico presso la medesima università, con particolare interesse verso la storia della lingua italiana. Ha frequentato un corso di laurea magistrale in Editoria e scrittura presso l’Università Tor Vergata di Roma, un breve corso di studi umanistici alla Sorbona e ad Harvard (incentrati soprattutto sulla Divina Commedia), un corso di media social communication alla Ninja Academy di Milano e un master in arte e organizzazione di eventi culturali (specialmente mostre d’arte). Da anni si occupa di cinema, arte e letteratura e nel 2014 ha fondato il magazine culturale online ‘900letterario, che dirige. Le sue ricerche e studi sono volti alla divulgazione di opere letterarie e cinematografiche meno conosciute.

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Viva più che mai di Andrea Vitali: recensione

La recensione del romanzo di Andrea Vitali edito da Garzanti

Ultimo aggiornamento: 1 Dicembre 2019 by Tiziana Topa

Quando il Riffa aveva coinvolto l’amico Ernesto Livera detto il Dubbio in un’uscita a quattro con la Valeria e la Tina aveva prospettato una serata all’insegna del divertimento. Ma la delusione è dietro l’angolo e i programmi del Riffa sfumano miseramente. Eppure il Dubbio quella serata non la dimenticherà più.

È notturno l’incipit di Viva più che mai (Garzanti, 2017, pp. 548), il giallo di Andrea Vitali, medico nato a Bellano, sul lago di Como. E proprio a Bellano e dintorni, nei luoghi di Vitali, si svolge l’azione, ricca di suspense e colpi di scena.

Quella notte sfortunata il Dubbio sta attraversando il lago a bordo della Canterina, la barchetta di sua proprietà di cui si serve per trasportare di contrabbando le sigarette in Svizzera. Sì, il Dubbio è un contrabbandiere, peraltro assai goffo. Dunque egli sta remando di buona lena quando la Canterina urta qualcosa. Il giovane si arma di torcia e illumina l’ostacolo. Tra stupore e sgomento apprende che si tratta del cadavere di una donna.

“Un fascio grazie al quale il Dubbio riuscì infine a stabilire che non era né un tronco né la carogna di un animale. […] Quindi, i remi in acqua, si avvicinò a quella cosa, al cadavere che aveva incrociato sulla rotta della sua barca. Girato, a faccia in giù. Guardava il fondo del lago. “

Senza pensarci su lo trascina fino alla riva del lago e lo lascia lì, metà in acqua e metà sulla terraferma. E adesso come comportarsi? Di avvertire i carabinieri non se ne parla proprio, troppo rischioso vista la sua attività poco limpida. Meglio rivolgersi a una persona fidata. La cosa più saggia da fare è mettere al corrente il dottor Lonati, che conosce il Dubbio fin da piccolo, da quando cominciò a soffrire di allucinazioni. Per uno strano scherzo del destino il Dubbio si trova a rivivere il trauma che lo segnò profondamente quando, bambino, rinvenne il cadavere del padre riverso sulla riva del lago, nella stessa posizione di quello traghettato dalla Canterina.

E quando, il mattino successivo, il corpo della donna non si trova più, inghiottito dalle correnti del lago, qualcuno sospetta che si tratti di una delle solite allucinazioni del ragazzo e che non esista alcun cadavere. Eppure, se su tante cose Ernesto nutre quei dubbi che gli sono valsi il soprannome, di aver trasportato una donna morta fino a riva è più che sicuro.

Il lago è custode silente di numerosi segreti che verranno a galla portando alla luce verità insospettabili e inconfessabili. Verità che riguardano una nascita e una morte, avvenute anch’esse di notte, molti anni prima.

La prosa di Vitali è scorrevole e piana come la superficie lacustre; sembra quasi che ci racconti questa storia seduto al tavolo di un bar, come se fosse una chiacchierata tra amici in cui non manca qualche spetteguless. In effetti Vitali fa ampiamente ricorso a idiotismi che accentuano l’aria di familiarità. La materia è trattata con il suo inconfondibile stile che unisce un tema giallo, di per se stesso macabro, a toni ironici e briosi, a volte addirittura spassosi. È un giallo che possiamo definire a pieno titolo umoristico.

Vitali porta il lettore per le stradine di Bellano, gli presenta gli abitanti, gente semplice, ognuno dei quali ha un soprannome e tutti sono perfettamente caratterizzati con i loro pregi, difetti e manie. Compare del Dubbio è il Riffa, autore di goliardate nelle quali coinvolge il titubante amico. La Tina, ragazza con la testa sulle spalle è invece determinante nella risoluzione del giallo, vera detective in gonnella .

Il romanzo ha una struttura filmica: i capitoli sono brevi come fotogrammi e molto spesso le parole con cui uno si conclude vengono riprese nell’incipit del successivo. Circolare è l’architettura dell’opera – che è una ring composition – la quale si apre e si conclude con una panoramica notturna di Bellano.

“La luce della croce di Camaggiore. Più sotto quella del campanile di Noceno. Più sotto ancora quella del santuario […]”

In questa descrizione paesaggistica si avverte tutto l’amore di Vitali per la sua città. Una città così amata da ricorrere in molti suoi romanzi cosicché anche il lettore vi si sente ormai a casa.

LEGGI  Le mele di Kafka di Andrea Vitali, trama e info sul nuovo libro

 

 

Categoria: RecensioniTag: andrea vitali, recensione

Nel segno del giudizio: recensione del saggio di Manola Bacchis

Annalina Grasso recensisce "Nel segno del giudizio - L'arte nelle copertine di Salvatore Satta" (Condaghes, 2017)

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by LibriStaff

Nel segno del giudizio: recensioneNel segno del giudizio – L’arte nelle copertine di Salvatore Satta (Condaghes, 2017) è un saggio di di Manola Bacchis, pedagogista e sociologa all’università di Pisa, che tratta di tutte le edizioni, straniere ed italiane, delle opere del grande giurista e scrittore sardo Salvatore Satta, autore di pregevoli romanzi come Il giorno del giudizio (1977), e La veranda (1981), oltre che acuti trattati di diritto come Il mistero del processo (postumo, 1994). Il merito del saggio, sta nel mostrare come l’immagine crei memoria più delle parole, influenzando l’immaginario del lettore attraverso una semplice copertina che custodisce un grande potere comunicativo.

Manola Bacchis, con il supporto di Filippo Satta, figlio di Salvatore, accompagna l’osservatore-lettore che si sente parte integrante dell’immagine che ha tra le mani, in un viaggio visivo e suggestivo durante il quale sembra rimarcare le parole di Cesare Pavese, il quale affermò che «sovente un accostamento tra uno scrittore e un gusto figurativo preesistente vale un intero saggio critico».

Così, come recita la nota introduttiva al libro (suddiviso in sette capitoli)

davanti a Nel segno del giudizio: l’arte nelle copertine di Salvatore Satta, si ha la percezione di affrontare un viaggio dentro un mondo magico, e, a volte, sconosciuto. Si parte da Padova, quarant’anni dopo la prima uscita del libro, maggio 1977, edizione Cedam, per arrivare all’ultima edizione inglese The day of judgment!, Apollo, Londra, aprile 2016, dopo aver attraversato i due emisferi”.
Si va in lungo e in largo per il mondo, alla ricerca di occhi attenti, di animi predisposti all’ascolto delle vicende della famiglia Sanna Carboni di Nuoro, e della loro città che diventa cuore e microcosmo dell’Universo.

Le copertine esaminate da Manola Bacchis, costituite da opere d’arte pittoriche e fotografie, sono quarantuno, di cui undici prodotte dalle case editrici nazionali per essere poi sottoposte alle considerazioni di un pubblico eterogeneo.

L’opera, concepita come un saggio che faccia conoscere ai più il dimenticato scrittore nuorese, si concretizza come un racconto che mira a celebrare l’universalità dell’opera di Salvatore Satta attraverso la rassegna delle copertine dei libri dell’insigne giurista, le quali rappresentano la soglia dell’ingresso al testo, e principali tasselli della comunicazione di una casa editrice.

A proposito dell’aspetto visuale di uno scritto, è utile riportare il pensiero di Elio Vittorini, in relazione alla disamina di Manola Bacchis: «Riguardo ai possibili modi di illustrare il libro, ve ne sono due: o corrispondere al suo linguaggio, al suo stile, o interpretarne il fondo» (p.3). Nel caso delle copertine di Satta, secondo l’autrice, esse contribuiscono a interpretare il contenuto, le tematiche della sua opera. Come anticipa la prefazione a Nel segno del giudizio, le copertine diventano istantanee di un mondo vissuto: quello sardo, con i suoi silenzi e scorci.

In questo senso è utile prendere in esame la prima tela di Foiso Fois, menzionata dalla Bacchis per la prima stampa del romanzo di Satta, Il giorno del giudizio, del 1977. In questo coloratissimo dipinto i protagonisti appartengono al mondo dei morti che divengono presenze grazie al loro incrociarsi con il mondo dei vivi. Risiede qui la forza del ricordo attraverso un simbolo. Manola Bacchis nella sua analisi vuole andare oltre la semplice descrizione delle copertine, chiamando lo spettatore-lettore stesso a scrutare al di là dell’immagine, a svelare il mistero che custodisce ogni copertina nella civiltà dell’immagine in cui viviamo e presentare le copertine de Il giorno del giudizio come esempio di raggiungimento dell’obiettivo visuale, ovvero quello di catturare l’occhio del lettore, che è oggetto e ragione dell’evocazione/provocazione polisemica.

L'edizione Cedam

L’autrice si concentra sulla lingua delle opere di Satta, sulla sua universalità e sulla rapida diffusione sia in Italia che all’estero, soprattutto in Spagna, per poi concentrarsi sul concetto di copertina quale opera visuale visibile e opera visuale invisibile.

Delle quarantuno copertine, undici sono state adottate dalle case editrici nazionale comprese le sarde Il Maestrale, Ilisso e La nuova Sardegna che ha stampato il libro come supplemento al quotidiano, analizzate minuziosamente e poi proposte ad un pubblico eterogeneo lasciando che esso fantastichi e si emozioni visionando le figure. Manola Bacchis ci fa comprendere chiaramente, adoperando metafore, elencando esempi, quanto sia immenso il mondo editoriale il cui codice non si riduce alla conoscenza alfanumerica, ad un atto comunicativo, perché l’insieme visuale di una copertina «porta in superficie un quadro, che equivale al richiedere significato ed equilibrio descrittivo e traducibilità privata e sociale»;. (p.36). Secondo la Bacchis, bisogna dunque scoprire una copertina per scoprire il verbo, la parola, l’idea, la fantasia, la storia, la letteratura soffermandosi verso la metà del libro proprio sul rapporto tra linguaggio privato e linguaggio sociale nel Giorno del giudizio con particolare attenzione alla dimensione spazio-temporale. Cruciale nell’indagine della studiosa sarda l’aspetto della manipolazione del commercio che vaglia la sfera concreta dell’uomo che si trova a scegliere un libro.

Nel segno del giudizio si muove intelligentemente tra annotazioni e tecniche legate sia al mondo editoriale e sociale in generale che nello specifico al contenuto del Giorno del giudizio, partendo dall’assunto che la creatività è comunicazione e che l’immagine come la parola è la lettura dell’uomo, della sua storia, del suo essere stato e perfino di quello che sarà, quindi «tanto l’immagine quanto la parola sono la trasposizione dei due fattori, l’io e l’altro, resi sensibili da un terzo altro, con un potere tale da indurre in noi la domanda: ‘Ha un libro cambiato la vostra vita?»” (p. 52).

La letteratura del testo si fa accompagnare dall’arte, dalla sua forma, dal suo grafismo, ma la Bacchis giustamente precisa che «non tutte le immagini sono visuali e il visuale non necessariamente è un’immagine» (p. 63). Il discorso quindi non è lineare come può sembrare e l’autrice approfondisce questa tematica entrando nel terreno mobile delle copertine definendole «immagini di non immagini e non immagini di immagini» (p. 68).

Un mondo si simboli e metafore in divenire dunque, sebbene l’immagine non assumerà mai lo status di immagino sino a quando essa non si legherà ad un soggetto che le conferirà concettuale ed iconica. Solo allora sarà avvenuto il processo percettivo, la creazione, l’atto comunicativo, lascia intendere la Bacchis. Il focus della ricerca è proprio l’analisi delle copertine nel loro insieme da un punto di vista descrittivo ed oggettivo, senza rinunciare alla riflessione sull’aspetto evocativo inserito in un discorso prettamente indirizzato ai visual studies in relazione alle edizioni delle copertine (dal 1990 al 2016), racchiuso nei capitoli intitolati Vedute visuali e che occupa buona parte del saggio. A tal proposito è fondamentale per la Bacchis la presenza di un vero sociologo visivo che intenda la realtà come la possibilità di una costruzione perpetua del sistema culturale sociale.

La prima copertina analizzata dalla Bacchis è quella dell’opera De profundis (CEDAM, 1948) che presenta una copertina morbida, bianca, lineare, non illustrata, dove si mette in risalto il titolo dello scritto. Passando per le opere Soliloqui e colloqui di un giurista (CEDAM, 1968), un cartonato rilegato con sovraccoperta in cartoncino morbido beige chiaro, La veranda (Adelphi, 109, 1981, postumo che riporta l’immagine di un dipinto dal titolo Wind from the sea dell’artista americano Andrew Wyeth, Padrigali mattutini (Ilisso, Collana scrittori di Sardegna, n.38, 2015), cartonato editoriale illustrato a colori, che riporta come immagine il dettaglio dell’opera Maria Pietra dell’artista Maria Lai, si arriva alla prima edizione della copertina di quello che è considerato il capolavoro di Satta, Il giorno del giudizio foriera di espressioni figurative di grande significato, la quale autore e testo tramite un linguaggio letterale, simbolico e allegorico. Se nell’edizione della CEDAM del 1977 (brossura a filo di refe, illustrata a colori «l’immagine, il titolo e l’autore danzano nello spazio che gli è concesso» (p.77), nell’edizione Adelphi del 1979 (copertina di color giallo paglierino), figura Il carro fantasma di Salvador Dalí che unisce surrealismo e realismo, richiamando quel tratto della penna di Satta intriso di ossimori, in linea con la profondità intima dell’autore e con il suo insistere sul concetto di effimero ed eterno.

Libri di Salvatore Satta

Per quanto riguarda le copertine internazionali, è opportuno menzionare la Insel, la prima casa editrice a livello internazionale che pubblica Il giorno del giudizio, con la sua copertina nitida, dove il contrasto tra il bianco, l’immagine fotografica e i tratti identificativi del libro creano un effetto visivo immediato di combinazione tra opera, autore ed editore. Infatti la scelta ricade sul portale della chiesetta delle Grazie, davanti alla quale sono poste due donne che indossano l’abito tradizionale nuorese.

La celebre casa editrice Gallimard edita invece per la prima volta nel 1981 con il traduttore Nino Frank e opta per una copertina essenziale che dona al libro un tocco universale e classico. La casa editrice Meulenhoff di Amsterdam è la prima ad editare nel 1982 in lingua olandese Il giorno del giudizio, il quale presenta una copertina di non semplice interpretazione: il genere editoriale “Roman” è sul lato destro in basso, corpo normale e dimensioni ridotte rispetto al resto. Sul dorso: nome, titolo e simbolo della casa editrice in stampatello nero su sfondo bianco. L’immagine utilizzata, una foto in bianco e nero, crea un gioco visuale simmetrico: essa ritrae una finestra in pietra con cornice iconografica che certamente non ha una mera funziona decorativa, e grate in obliquo. Ai due lati si possono osservare due simboli arcani identici: il sole delle Alpi e il sole del pastore detto anche sesto giorno della Genesi.


Tralasciando le edizioni in polacco, finlandese, slovacche, anche queste analizzate minuziosamente dalla Bacchis, ci soffermiamo sull’edizione spagnola de Il giorno del giudizio, edito per la prima volta da Anagrama, con sede a Barcellona, nel 1983, la quale pone in copertina un dettaglio importante: premio Comisso 1979, sezione narrativa. Le specifiche del testo e l’immagine occupano posizioni centrate sul frontespizio con sfondo chiaro, adeguato con la rappresentazione iconica del dipinto a olio Vanitas stil life del pittore fiammingo Cornelis Norbertus Gysbrechts che riconduce all’essenza dell’opera sattiana: elementi concettuali che illudono la vista (un teschio, un boccale, un violino, una lanterna), fondendosi con il bianco che è luce per Il giorno del giudizio, creando un effetto visivo bidimensionale. Il mistero della vita e della morte.

Al netto delle riflessioni di Manola Bacchis, che però a volte si perdono in ovvietà, possiamo trarre le seguenti conclusioni: la copertina non è un semplice involucro, né solo immagine o grafica; la copertina è sostanza, è il sostrato. Le copertine delle prime edizioni delle opere di Satta anticipano «quello straordinario panorama di scelte intime ed editoriali che mostrano l’anima, i simbolismi, le complessità metaforiche e concettuali, rimandi culturali del linguaggio privato e del linguaggio sociale» (p.70).

Recensione a cura di Annalina Grasso

Annalina Grasso è una giornalista pubblicista nata a Benevento. Si è laureata in Lettere moderne all’Università Federico II di Napoli con una tesi su Giacomo Debenedetti interprete di Marcel Proust e si è specializzata in filologia moderna a indirizzo linguistico presso la medesima università, con particolare interesse verso la storia della lingua italiana. Ha frequentato un corso di laurea magistrale in Editoria e scrittura presso l’Università Tor Vergata di Roma, un breve corso di studi umanistici alla Sorbona e ad Harvard (incentrati soprattutto sulla Divina Commedia), un corso di media social communication alla Ninja Academy di Milano e un master in arte e organizzazione di eventi culturali (specialmente mostre d’arte). Da anni si occupa di cinema, arte e letteratura e nel 2014 ha fondato il magazine culturale online ‘900letterario, che dirige. Le sue ricerche e studi sono volti alla divulgazione di opere letterarie e cinematografiche meno conosciute.

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Eleanor Oliphant sta benissimo: un’impacciata e imprevedibile Jane Eyre contemporanea

Francesca Zunino Harper analizza e recensisce "Eleanor Oliphant sta benissimo" di Gail Honeyman

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by LibriStaff

Eleanor Oliphant e Jane Eyre: una recensione“Allungai la mano nello spazio tra il materasso e il muro e cercai il mio vecchio compagno fedele, con i margini arrotondati e smussati da anni di uso. Jane Eyre. Potevo aprire il romanzo a qualsiasi pagina e sapere subito dov’ero nella storia e quasi visualizzare la frase seguente ancora prima di arrivarci. … Jane Eyre. Una ragazza strana, difficile da amare. Una bambina sola e solitaria. È costretta ad affrontare tanto dolore in così giovane età: i postumi della morte, l’assenza dell’amore. Alla fine è il signor Rochester a scottarsi. So qual è la sensazione. Lo so perfettamente.” [Read more…]

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Le sette morti di Evelyn Hardcastle: recensione del libro di Stuart Turton

Francesca Zunino Harper recensisce l'atteso romanzo di Stuart Turton in uscita il 21 marzo per Neri Pozza

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by LibriStaff

La recensione di Le sette morti di Evelyn HardcastleIn inglese britannico si potrebbe dire che Le sette morti di Evelyn Hardcastle è un po’ come la Marmite ─ una crema da spalmare creata nel 1902 estremamente salata, di colore marrone, consistenza appiccicosa, odore molto particolare, fatta con estratti di lievito di birra. La Marmite è diventata un elemento tipico della cultura popolare anglofona anche per la sua facoltà di polarizzare opinioni davvero estreme grazie al o a causa del suo gusto. Tanto che lo slogan pubblicitario in uso dal 1996, “Love it or hate it” (“o la ami, o la odi”) è ormai entrato a far parte dei modi di dire del linguaggio comune, associato a qualsiasi persona, cosa o avvenimento che provochi opinioni assai opposte.

Il romanzo di debutto di Stuart Turton, che ha vinto il premio Costa per il Miglior Debutto del 2018 e sarà pubblicato in italiano il prossimo 21 marzo da Neri Pozza, tradotto da Federica Oddera, sembra essere un po’ come la Marmite. È stato comprato nel 2016 all’agenzia letteraria britannica DHH come uno dei titoli di punta per il lancio di Raven Books, nuovo marchio editoriale specializzato in romanzi noir, thriller gotici e gialli della casa editrice inglese Bloomsbury (quella che intenderci che ha pubblicato i libri di Harry Potter, e che anche grazie al loro smisurato successo si è espansa grandemente).

Descritto come “un misto di Gosford Park e Ricomincio da capo [Groundhog Day] passando per Agatha Christie”, Evelyn Hardcastle è un thriller psicologico con un sapore d’antan, grazie all’ambientazione in una villa aristocratica decadente in una campagna molto isolata, in un momento storico-fantastico probabilmente anteriore alla prima guerra mondiale. Anche la sua scrittura è retrò, ispirata ad un uso della lingua inglese dei romanzi dell’inizio del ‘900. Evelyn Hardcastle è anche un romanzo giallo, una ‘storia di detective’, un ‘mistero con omicidi’ (un murder mystery, molto British) con qualche tocco di horror, che vuole inserirsi nella grande tradizione britannica offrendole però una svolta contemporanea.

Il romanzo inizia in medias res con il narratore, completamente spaesato come il lettore, che non sa e non ricorda quale sia la sua identità, e che si ritrova all’improvviso dalla prima pagina del primo capitolo in un bosco con un corpo ed un nome che non riconosce come suo. Il protagonista, che verso la prima metà del romanzo scoprirà di chiamarsi Aiden Bishop ─ e finalmente lo scoprirà anche il lettore ─, è misteriosamente costretto a rivivere lo stesso giorno ogni giorno per otto giorni di seguito, entrando però nel corpo di un diverso personaggio, per cercare di identificare l’assassino che causa la morte a cui si riferisce il titolo del romanzo. Solo se riuscirà a trovare l’omicida si spezzerà questo circolo vizioso, liberandosi da questa sorta di maledizione, e lasciando finalmente il luogo del delitto. Non solo il protagonista continua a rivivere lo stesso giorno, ma ovviamente anche l’enigmatica Evelyn Hardcastle, giovane ereditiera e figlia del nobile di cui il protagonista ed un numero consistente di altri personaggi sono ospiti nel vecchio maniero. Evelyn, come preannuncia il titolo, viene uccisa sette volte, sempre alle 11 di sera, durante la festa in suo onore. C’è da notare che nel’edizione statunitense del libro, il titolo del romanzo e quindi le morti della povera Evelyn Hardcastle sono state aumentate a sette e mezzo, a causa di un conflitto del tutto casuale con romanzo dal titolo simile, The seven husbands of Evelyn Hugo (I sette mariti di Evelyn Hugo) della scrittrice Taylor Jenkins Reid, non ancora tradotto in italiano.

La trama viene ulteriormente complicata da un gran numero di personaggi, alcuni dei quali vengono assunti come punto di vista della narrazione dal personaggio principale, diverso in ogni capitolo appunto perché cambia corpo ad ogni risveglio. Inoltre vi è un maggiordomo occulto che cerca di uccidere lui ed altri personaggi che, come il principale, vengono misteriosamente fatti reincarnare ogni giorno in una persona diversa, perché il nostro non è da solo ma in competizione con altri arcane presenze per sciogliere il mistero dell’uccisione di Evelyn, e quindi potersi liberare. Giunge presto in scena e si ritrova fino al finale clamoroso anche una figura ancora più enigmatica, un demiurgo onnisciente e crudele, un possibile emissario di un burattinaio del caos vestito da medico della peste, interamente di nero e con una delle caratteristiche maschera da uccello, con il becco lungo dove venivano inserite delle erbe aromatiche che in teoria dovevano proteggere il dottore dalle possibile infezione.

Come in un romanzo di Hercule Poirot, all’inizio del libro vengono offerti ai lettori sia una mappa dettagliata della villa e delle stanze con i rispettivi ospiti che un elenco o dei vari personaggi, scritto sotto forma di invito alla festa, per cercare di dare aiuto al lettore, che sicuramente si potrà smarrire in questa selva di personaggi e cambiamenti di identità. L’editore Neri Pozza ha creato un delizioso trailer per la versione italiana, ispirato ai gialli di inizio del secolo scorso, con bellissima grafica e una simpatica musica jazz di accompagnamento, che riprende la ben riuscita copertina italiana e illustra trama e personaggi in maniera intrigante.

Molti scrittori e critici hanno subito adorato questo romanzo: “È un libro incredibilmente originale e unico, non sono riuscita a togliermelo dalla testa per giorni dopo averlo letto” ─ ha affermato una delle regine internazionali dei thrillers psicologici, Sophie Hannah; il Guardian scrive che è “un thriller intellettuale… una trama derivativa, ma questo non si deve intendere come una critica. Stuart Turton ha preso da una mezza dozzina di tropi familiari della cultura popolare e li ha rilavorati in qualcosa di fresco e memorabile.” Il Times lo definisce “un romanzo complesso, affascinante e sconcertante, impossibile da riassumere, la cui storia è governata e sospinta da una serie di regole ingegnose, assurde ed elaboratamente diaboliche”.

È sicuramente un romanzo complesso, che alle volte pare diventare anche complicato a causa di molti personaggi ed alcuni fili narrativi che vengono lasciati scoperti, oltre ad una mancanza di empatia nei confronti del protagonista ─ il prezzo da pagare, come scrive il Guardian, per aver dovuto inserire varie morti, non solo quella di Evelyn, e soprattutto un personaggio che cambia ma ripete anche le proprie giornate, in un romanzo psicologico ma anche giallo, di mistero e dell’orrore, ovvero per aver creato un pastiche di generi, temi e motivi ricorrenti ispirati a vari generi di narrativa.

Il più ovvio riferimento è sicuramente quello ad Agatha Christie, sebbene qui non si ritrovino i perfetti incastri della regina del giallo. Nella postfazione al libro, Stuart Turton scrive, in un brano forse un po’ lungo ma illuminante e molto godibile [traduzione mia]: “È tutta colpa di Doris, in realtà. Ho questa frase scritta su un post-it attaccato al muro. Doris era la mia vicina di casa quando avevo otto anni. Ogni fine settimana braccava tutti i mercatini delle pulci dell’Inghilterra del nord est e portava a casa grandi pile di romanzi di Agatha Christie per farmeli leggere. Non seppi mai come era iniziata questa tradizione, o perché. Forse Doris pensava che ogni ragazzino figlio di una famiglia di lavoratori della classe operaia dovesse leggere storie di persone delle classi ricche e aristocratiche che venivano uccise. Andò avanti per anni. Doris mi consegnava cerimoniosamente i libri al sabato; io li leggevo durante la settimana, e poi si ricominciava. Quando compii dieci anni, avevo una conoscenza enciclopedica della Christie, e sapevo che anch’io avrei scritto un romanzo. … Ci provai per la prima volta quando avevo ventunanni, quando il mio ego si era gonfiato a sufficienza e mi aveva convinto che sarebbe stato facile. Fissai lo schermo vuoto per un mese, fino a quando non mi resi conto che Agatha Christie aveva già scritto tutti i colpi di scena più eccezionali per ogni trama, tutti i più brillanti inganni e trabocchetti narrativi, e tutti i personaggi più brillantemente ambigui.”

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Dobbiamo quindi dare la colpa a Doris?

Se è lo stesso Turton ad ammettere che la signora del giallo ha già scritto tutto il possibile per quanto riguarda questi tipi di romanzi, implicitamente ammettendo quindi che raggiungere il suo livello stratosferico è qualcosa di quasi impossibile, molte recensioni dei lettori seguono questo tipo di analisi. “Agatha Christie proprio non è”, scrivono in molti commenti su Amazon e su numerosi blog i lettori specializzati e non. È proprio il lettore a subire maggiormente l’effetto Marmite per questo romanzo, in quanto Evelyn Hardcastle ha diviso i pareri come quasi non mai. Molti si lamentano dell’eccessiva lunghezza, della complicatezza della trama, difficile da seguire, e della mancanza di profondità dei personaggi, tutti punti che vengono invece al contrario esaltati come innovativi dalla critica. Come per la Marmite, “Love it or hate it”, Le sette (e mezza, per alcuni) morti di Evelyn Hardcastle è sicuramente un libro estremamente peculiare, da leggere per poi decidere da che parte della critica stare.

Le sette morti di Evelyn Hardcastle: recensione del libro di Stuart Turton

Francesca Zunino Harper è linguista, anglista e ispanista, traduttrice e appassionata di Gran Bretagna e America Latina, Messico in particolare, dove ha vissuto per anni. Ama soprattutto la letteratura e la saggistica contemporanee e storiche di donne, natura, viaggi, cibo, e i libri da riscattare. Fa la spola tra Londra e il Piemonte.

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Resta con me: recensione del libro di Elizabeth Strout

Veronica Bonino recensisce Resta con me, di recente ripubblicato da Fazi

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by LibriStaff

Resta con me: recensione del libro di Elizabeth StroutResta con me
Edito da Fazi nel 2019 • Pagine: 381 • Compra su Amazon

Tyler Caskey è una presenza insolita per la comunità di West Annett: è giovane e i suoi sermoni sono brillanti, frutto di una preparazione e di una sensibilità fuori dal comune. Ed è diverso dalle precedenti guide spirituali che i fedeli hanno conosciuto perché ha carisma e una moglie di grande bellezza e sensualità accanto. Quasi uno schiaffo di vitalità per tutta la cittadina. Eppure un giorno tutto può cambiare, l’attrazione trasformarsi in sospetto e maldicenza. La giovane signora Caskey muore. Una morte che travolge il marito e le loro bambine in modo irreversibile. La figlia maggiore, Katherine, di appena cinque anni, smette di parlare chiudendosi in un silenzio impenetrabile; Tyler non trova più le parole adatte in chiesa, né alcuna misericordia per chi si rivela ottuso, arido, distante. Cosa resta, quindi, del conforto religioso? Poco o niente, se di fronte alla fragilità di un lutto che si apre come una voragine nessuno riesce a compenetrarsi nel dolore altrui, se le meschinità di un quotidiano prosciugato di ogni calore si moltiplicano tra le mille illazioni che corrono lungo i fili del telefono propagando sciocche storie di adulterio o di malattia mentale...

La recensione di Veronica Bonino

A distanza di quasi dieci anni dalla prima comparsa nel mondo editoriale italiano la casa editrice Fazi sceglie di dare alle stampe una nuova edizione del secondo romanzo della scrittrice statunitense: Resta con me. [Read more…]

Categoria: RecensioniTag: recensione

Il giorno della nutria: un libro che dà gusto al pensiero

Recensione del romanzo di Andrea Zandomeneghi edito da Tunué

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by LibriStaff

Il giorno della nutria: un libro che dà gusto al pensieroIl giorno della nutria
Edito da Tunuè nel 2019 • Pagine: 154 • Compra su Amazon

Davide Aloisi è un cefalgico cronico che abita a Capalbio assieme al nipote Giulio e alla madre Eufemia, gravemente malata, in una villa frequentata da bizzarri personaggi locali. Una mattina, dopo una nottata a base di alcol e benzodiazepine trascorsa in canonica con il parroco, sul pianerottolo di casa trova una nutria scorticata. Il rinvenimento gli provoca un'angoscia che si fa pensiero ossessivo quando realizza che ha l'aria di un'intimidazione o di uno sfregio, e che il possibile responsabile potrebbe nascondersi tra chi gli sta intorno - oltre al nipote e alla madre, la badante di lei Dorota, suo figlio Esteban, dedito alla santeria, l'amico ufologo Emanuele, fino allo stesso parroco e a un losco possidente locale: tutti hanno un possibile movente. Sulla base di coincidenze, suggestioni e congetture, Davide opera ricostruzioni che lo portano a dubitare di tutti, nel corso di una giornata sempre più vorticosa, in cui il clima casalingo precipita fino al parossismo.

L’esordio di Andrea Zandomeneghi si fa notare per la grande capacità affabulatoria e per l’originalità della voce e del pensiero. [Read more…]

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Foschia di Anna Luisa Pignatelli – Recensione

La recensione di "Foschia" di Anna Luisa Pignatelli

Ultimo aggiornamento: 12 Settembre 2019 by Tiziana Topa

Ogni bambina è una principessa per il suo papà e ogni papà è un eroe per la sua bambina. Ma alcune figlie hanno con il padre un rapporto la cui ambiguità cela segreti e inquietudini le quali, come correnti sotterranee, premono per venire a galla.

Marta è gravemente malata; sa che le resta poco tempo davanti e allora quel tempo che ha lasciato dietro sé lo ripercorre con la memoria, intensamente e dolorosamente. Ella sente l’esigenza di fare i conti con il passato, con la famiglia. E, soprattutto, con suo padre Lapo.

Foschia (Fazi Editore, 2019, pp. 208) è un romanzo forte e crudo in cui Anna Luisa Pignatelli, scrittrice toscana assai apprezzata all’estero, mette a nudo la dinamica complessa del rapporto tra Lapo e Marta, un padre narciso e una figlia affamata d’amore. Un rapporto ricco di sfumature, duro, ambiguo, narrato da Marta in prospettiva autodiegetica. La giovane ha bisogno dell’accettazione del genitore, stimato critico d’arte, che però le sfugge, troppo concentrato sulla carriera, su se stesso e su una vita parallela. E allora Marta lo rincorre, cerca in tutti i modi di piacergli.

 

L’ambientazione nella campagna senese, che diventa teatro ameno di una vicenda tormentata, ricorda Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi. Nel podere di Lupaia, Marta trascorre un’infanzia segnata dalla morte della madre, Teresa, spirito un po’ gitano, eccentrica e alla ricerca di un rapporto panico con la natura. È allora, ricorda Marta, che il mondo comincia a essere soffuso di foschia. È allora che nasce l’infatuazione per quel padre che è sempre meno presente nella sua vita. Lapo sposa poi Dora, ricca produttrice di vini e collezionista d’arte e porta i figli — Marta ha un fratello, Antonio, figura defilata e remissiva — ad abitare a Torre al Salto, lussuosa dimora della moglie. Man mano che la figlia sente Lapo sfuggirle inesorabilmente, preso com’è dalla nuova famiglia, l’infatuazione infantile diventa passione bruciante, anche perché ella inizia a vivere le pulsioni dell’adolescenza.

“Rimaneva vivo l’attaccamento morboso che avevo sviluppato […] nei confronti di mio padre. […] Un attaccamento che s’era andato trasformando in un desiderio fisico […] come se il mio corpo d’adolescente avesse voluto appartenergli, così come a lui appartenevano i miei pensieri”.

 

Irrimediabilmente naufragato il loro rapporto, Marta va a studiare negli Stati Uniti, ospite della nonna paterna, donna dai modi freddi e bruschi.

I tre nuclei spaziali segnano altrettante fasi della vita di Marta.

Lupaia, dove la natura è spontanea e autentica e la casa reca l’impronta amorevole della madre, rappresenta il “benedetto e beato tempo” dell’infanzia. Torre al Salto, dove il paesaggio è addomesticato e antropizzato, emana un’aura maligna, dovuta alla presenza ostile di Dora. Forse è proprio quella negatività a risvegliare i demoni che si annidano in chi vi abita e a scatenare passioni insane. Qui Marta sboccia e diventa una giovane donna. L’America rappresenta il futuro della ragazza, la frattura definitiva con il passato e la visione finalmente limpida del mondo.

“Di colpo mi sentii adulta, forte e consapevole: come se lo spesso velo di foschia in cui mi pareva d’essere avvolta avesse lasciato il posto nella mia mente a un’improvvisa schiarita”.

Come Pietro, il protagonista del romanzo di Tozzi, ha vissuto con gli occhi chiusi per non vedere la reale condotta di Ghìsola, così Marta ha vissuto obnubilata da una foschia grazie alla quale poteva illudersi che il padre fosse quale lei avrebbe voluto.

L’arte, collante tra Marta e Lapo, è il banco di prova della progressiva corruzione dell’uomo. Da sincero cultore di ideali di purezza e verità, dell’“arte per l’arte”, egli finisce per tradire se stesso e arriva a forzare le proprie expertises in funzione del profitto.

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La prosa di Anna Luisa Pignatelli è scabra e nulla concede al sentimentalismo eppure è densa di pathos; ricca di riferimenti artistici e letterari, essa è elegante anche quando porta alla luce pulsioni inconfessabili. Marta legge Lolita  di Nabokov. Chissà se si riconosce in questa giovane ‘scandalosa’… In effetti si ritrova a ripeterne le movenze.

“Se non era possibile avere la sua attenzione, quella legittima di un padre verso la figlia, pensavo di meritare almeno quella che gli avevo letto nello sguardo e che aveva acceso la mia immaginazione, di un uomo sulla via del tramonto per un’adolescente in fiore”.

L’arte — eccola di nuovo — svolge per Marta un ruolo catartico: sublimando nel teatro le forti passioni che hanno ottenebrato la sua giovinezza con la foschia interiore di un groviglio di inquietudini, ella trova finalmente sollievo e pace.

 

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