Edito da Mimesis Edizioni nel 2020 • Pagine: 220 • Compra su Amazon
Il termine yoga è di vasta portata: oggi è presente non solo nella cultura asiatica, ma in quella di tutti i continenti, e capire cosa significhi è una priorità poiché esso viene spesso usato per indicare attività che con lo yoga hanno poco a che fare. In questa indagine non si può prescindere dagli Yogasu¯tra di Patañjali, che sono il principale testo filosofico di riferimento dello yoga contemporaneo. Studiando gli Yogasu¯tra, ci si imbatte nella teoria dei klesa, il cuore dell’insegnamento di Patañjali, secondo cui yoga, lungi dal significare “esecuzione di posture”, è un metodo che libera l’individuo dalla sofferenza, la cui origine risiede in cinque afflizioni mentali, appunto i klesa: ignoranza, senso dell’io, attaccamento, repulsione e paura della morte. A una prima parte del libro, più tecnica, in cui si inquadra storicamente ed etimologicamente lo yoga cercando di far luce sui non semplici concetti chiave di questa disciplina, segue una sezione dal respiro più ampio, che cerca di comprendere le cinque afflizioni mentali esposte negli Yogasu¯tra, anche abbracciando la lettura che di esse viene proposta negli altri testi classici della filosofia indiana, con fugaci rimandi alla filosofia occidentale e alle recenti scoperte neuroscientifiche e fisiche.
La realtà non è così come ci appare. E questa erronea apparenza è la causa della nostra quotidiana sofferenza.
I. La filosofia classica indiana
Il sistema filosofico indiano, nel suo intreccio di ontologia, metafisica, etica, psicologia, gnoseologia e cosmogonia, ha un carattere soteriologico, non indaga la natura dell’essere e l’origine del mondo per puro amor teoretico, ma cerca di conoscere la mente umana, il suo rapporto conoscitivo e percettivo con la realtà e con le limitazioni di spazio e tempo, al fine di capire come l’individuo possa uscire da questi vincoli, ritenuti fonte di sofferenza, e liberarsi dal dolore del disagio esistenziale. La gnosi – la conoscenza autentica, trascendente, immediata, non empirca né intellettuale – è la chiave di salvezza in tutte le antiche filosofie indiane che differiscono fra loro nella diversa via proposta per realizzare questa meta salvifica e nello sfondo filosofico-metafisico entro cui la collocano.
Centrale in questa filosofia soteriologica è il discorso morale, la distinzione fra bene e male, dove il bene coincide con la virtù, il buon karma, la conoscenza (vidyā), la felicità (ānanda), la liberazione (mokṣa, kaivalya) della coscienza trascendentale (atmān, puruṣa, dṛśi, citi, citiśakti) dalla mente sensoriale (citta, prakṛti); il male, invece, è il vizio (kleśa), la sofferenza (duḥkha), il karma negativo e, in ultima istanza, l’ignoranza (avidyā) che impedisce agli esseri umani di conoscere la loro vera natura, ovvero l’illusione (māyā) che li induce a proiettare un’immagine distorta di sé stessi e del mondo e a identificarsi con essa.
La filosofia indiana, e in particolar modo lo yoga, è un sapere pratico: si interroga su cosa sia una vita felice partendo dall’esistenza della sofferenza di cui ogni essere umano fa esperienza, quindi su come trasformare il dolore. Pur nella sua complessità, vastità e varietà, si può attestare che (salvo rare eccezioni) i pensatori classici dell’India sono convinti che agire nella retta conoscenza e nella virtù sia la condizione fondamentale per la liberazione dal dolore. La loro fatica filosofica consiste nel delineare e comprendere il tipo di conoscenza più adatto per sradicare le origini della sofferenza, nel descrivere cosa sia la virtù e in che modo possa essere realizzata. Se l’essere umano desidera liberarsi dal patimento e realizzare la felicità, deve comprendere la natura dell’afflizione, le sue cause e il metodo pratico che conduce alla cessazione della sofferenza. La teoria dei kleśa, cuore del secondo capitolo degli Yogasūtra, viene elaborata da Patañjali per rispondere a questa esigenza.
Il sentiero filosofico che teorizza la verità e la rimozione della sofferenza ha il compito di tracciare una mappa con cui lo yogin può orientarsi nella sua ricerca interiore. La filosofia dello yoga, di cui gli Yogasūtra rappresentano la più antica e strutturata sistematizzazione, è un sapere pratico anche nel senso che esige una trasformazione interiore della coscienza: l’individuo può trascendere la sofferenza esistenziale solo attraverso un’esperienza diretta (pratyakṣa) che l’apparato concettuale non può cogliere nella sua pienezza ma che può solamente indicare da lontano, come un dito indica la posizione della luna senza toccarla e senza sostituirsi con l’esperienza del vedere la luna che va al di là del dito stesso. La disciplina dello yoga è stata, a ben ragione, definita una “metafisica sperimentata”. Senza lo studio della filosofia non si comprende ciò che deve essere abbandonato e ciò che deve essere perseguito, e senza l’agire in armonia con gli insegnamenti non è possibile trasformare la sofferenza in serenità: vi è integrazione fra il filosofo e lo yogin, tra filosofia ed esperienza, teoria e pratica, pensare e percepire, sapere e agire, essere e fare. Nello yoga, filosofia ed esperienza non possono essere separate. Di più: il criterio di validità di una teoria filosofica è la sua conferma a livello empirico e pratico a cui ciascun individuo è richiamato. La qualità della vita vissuta in conformità con una particolare teoria ne costituisce la verifica più autentica. Autenticamente felice è la vita di colui che possiede una retta visione (vidyā, prajñā, vivekakhyāti) e, al tempo stesso, quando una teoria filosofica è retta e veritiera, allora la vita di colui che la realizza è luminosa, priva di sofferenza e felice. Nessun pensatore indiano affermerebbe mai che una filosofia è valida in teoria ma non in pratica perché non può essere sperimentata. Se una teoria filosofica è giusta, anche il frutto della sua applicazione deve essere necessariamente buono e se, al contrario, una dottrina non può essere tradotta in prassi, è allora inutile.
La filosofia indiana è una ricerca cognitiva che trasforma chi vi si addentra ed esige un totale coinvolgimento tra soggetto conoscitore e oggetto conosciuto. È una teoria della salvezza attraverso la conoscenza in cui conoscere la verità significa realizzarla pienamente per mezzo dell’esperienza diretta.
yatroparamate cittaṁ niruddhaṁ yoga-sevayā yatra caivātmanātmānaṁ paśyann ātmani tuṣyati / sukham ātyantikaṁ yat tad buddhīgrāhyam atīndriyam vetti yatra na caivāyamṁ sthitaś calati tattvataḥ / yaṁ labdhvā cāparaṁ lābhaṁ manyate nādhikaṁ tataḥ yasmin sthito na duḥkhena guruṇapi vicālyate / taṁ vidyād duḥkhasaṁyogaviyogaṁ yogasaṁjñitam / sa niścayena yoktavyo yogo ’nirviṇṇa cetasā
Quello stato in cui le funzioni mentali (cittam) s’arrestano (uparamate) [poiché] frenate (niruddham) dalla pratica dello yoga; in cui il sé, contemplando il sé, solo nel sé (ātmani), si appaga (tuṣyati); in cui [lo yogin] conosce l’infinita goia (sukham ātyantikam) che trascende i sensi (atīndriyam ) e [che può essere] colta (grāhyam) solo dall’intelligenza (buddhi), dimorando nel quale non s’allontana più dalla realtà (tattva); quello stato, conquistato (labdhvā) il quale [lo yogin] non pensa che possa esistere altra conquista più grande (nādhikam) e dimorando nel quale non ne è distolto (vicālyate) neppure da un grave dolore: quello stato si chiama yoga ed è la disgiunzione (viyoga) dell’unione (saṃyoga) con la sofferenza (duḥkha); questo yoga dev’essere praticato con determinazione (niścayena) e con animo sereno (anirviṇṇa cetasā).
La condizione di possibilità affinché questa gnosi liberatrice possa manifestarsi è la disgregazione dell’apparato ordinario della conoscenza fondato sulle impressioni sensoriali e le conseguenti elaborazioni concettuali, sull’identificazione della coscienza con il corpo e con la mente. Il corpo e la mente sono gli strumenti per eccellenza della percezione ordinaria che elabora sempre una visione della realtà distorta perché filtrata dall’insieme di concetti, desideri, emozioni, idee di sè e vissuti del passato (saṃskāra). Questa distorsione della realtà è la fonte della sofferenza degli esseri umani. La filosofia indiana, da un lato, rifiuta la distinzione ontologica fra corpo e mente – perché la mente è il sesto senso, costituito di materia come i cinque canonici – e, dall’altro, sostiene la discriminazione fra una conoscenza di natura superiore e quella empirica, fondata sul corpo e sulla mente. Negli Yogasūtra il termine yoga è usato per indicare la teoria e la pratica che aiuta la gnosi a sganciarsi dai sofferti intrecci di corpo, mente e materia, e a rifulgere di luce sua propria. Questo tipo di cognizione non intriso di confusione, capace di cogliere la realtà senza ostruzioni né mediazioni, emerge quando cessano (nirodha) gli ordinari meccanismi della conoscenza grazie alla sinergia fra indagine analitica e pratica meditativa.
(…)
Gli Yogasūtra espongono un programma di meditazione ben strutturato attraverso il quale lo yogin può realizzare la natura incontaminata della coscienza e vedere direttamente la realtà per ciò che essa è davvero. Il presupposto da cui muove la disquisizione è l’esistenza della sofferenza condensata in cinque afflizioni principali (kleśa) che possono essere sradicate mediante lo yoga: un metodo di concentrazione meditativa (samādhi) che sgretola le ordinarie, rassicuranti e condivise concezioni di sé e del mondo, e permette una visione della realtà libera dalle imposizioni limitanti del corpo e della mente.
Non è pertanto lecito proporre una pratica yoga incentrata esclusivamente sull’esercizio delle posture fisiche rifacendosi agli insegnamenti di Patañjali, poiché essi non promuovono esercizi fisici salutistici fini a sé, ma tecniche di addestramento e concentrazione che mirano a sradicare il modo ordinario, abitudinario ed erroneo di percepire la realtà. La pratica degli āsana è importante per contrastare l’indebolimento, l’indolenza e l’agitazione del corpo, per mantenerlo in salute, ripristinandone gli equilibri fisiologici ed energetici; è molto utile per sciogliere gli stati di tensione, rigidità e dolore che impedirebbero al corpo di arrestarsi e stare fermo (nirodha), di sostare in una postura assisa stabile e confortevole, a lungo e regolarmente, ed essere così un valido e prezioso sostegno alla mente nella sua pratica di introspezione meditativa. La mente impara a fermare i propri indomiti e convulsi movimenti (vṛtti) se anche il corpo domina i suoi ed è capace di stare, fermo. La pratica degli āsana – che etimologicamente deriva dalla radice as, “stare, sedersi” – deve perciò essere orientata al nirodha, la meta finale dello yoga (I.2), la capacità di fermare ogni movimento, di qualsiasi natura esso sia.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea è nata dal desiderio di chiarire cosa significhi yoga, a cosa serva, e quale sia l’idea di yoga esposta negli Yogasutra di Patanjali che sono il testo filosofico di maggior riferimento delle scuole yoga contemporanee.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato molto stimolante lo studio che è stato necessario per la stesura del libro, leggere le diverse interpretazioni del testo che nel corso dei secoli sono state portate avanti ed è stata una pratica molto utile e trasformatrice la scrittura a quattro mani.
Quali sono i vostri autori di riferimento?
Il riferimento sono gli autori della filosofia classica indiana (Yogasutra e commentari, Bhagavad Gita, Upanisad), gli studiosi contemporanei di yoga e i filosofi occidentali.
Dove vivete e dove avete vissuto in passato?
Viviamo a Firenze e abbiamo vissuto molti anni in India.
Dal punto di vista letterario, quali sono i vostri progetti per il futuro?
Scrivere due libri: uno sulla questione della filosofia in India e uno sulle filosofie indiane.