Edito da LINEA edizioni nel 2021 • Pagine: 256 • Compra su Amazon
Passaggi di proprietà, ovvero Storia di un quadro. Il tracciato narrativo del romanzo attraversa un ampio lasso cronologico, dalla genesi di un’opera
pittorica, - un’Annunciazione eseguita nel primo Cinquecento da un artista della Maniera, - alle peregrinazioni del dipinto nel corso del tempo, per
l’appunto i relativi passaggi di proprietà.
Le vicende pertengono a furti, recuperi, restauri, vendite. Ascese e cadute in disgrazia, affermazioni e contraddittorie negazioni delle stesse, ispirazione creativa e prosaica mercificazione, unità sociali al collasso e derive morali costituiscono il contesto nel quale operano i numerosi personaggi. Artisti, avventurieri, mecenati, collezionisti, restauratori e nuovi acquirenti sono i protagonisti degli episodi concatenati tra loro grazie a una prospettiva mutevole ma coerente per ironia e cinica irriverenza. Il principio di adesione al contesto storico, che va dal XVI secolo all’età contemporanea, fino a una distopica dimensione futura, costituisce il tenace legame di originalità del testo. Le variazioni del registro linguistico, che si adegua alle civiltà di riferimento, contribuiscono a rendere fluidi i paradigmi entro i quali catalogare l’opera. Convivono infatti i caratteri propri del romanzo storico, di
formazione e introspettivo, coniugati con ritmi letterari più serrati e contemporanei.
Questa è la mia storia
Ho vissuto come un essere umano.
Ho avuto una nascita, un’esistenza e una morte.
Qualcuno mi ha creato e qualcosa ha deciso per me.
Accade così anche per l’uomo.
Un evento ineludibile, a un certo tratto del suo cammino, che l’uomo stesso non può stabilire se non dandosi la morte, decide affinché il percorso si interrompa.
Ho avuto una lunga storia, una lunga vita delle quali vado fi ero, perché ogni luogo che mi ha ospitato, ogni persona che ho incontrato, ha osservato la mia pelle, i miei tratti, e ne è rimasto segnato, come di fronte a una rivelazione ha intrattenuto con me un rapporto che non lo ha
restituito alla sua più comune giornata nella stessa condizione antecedente all’incontro.
In me si è riconosciuto e in me forse ha ravvisato un qualche motivo per continuare a vivere, a soffrire, a lanciare verso l’eterno padiglione del cielo il grido di gioia o il disperato riconoscimento della propria infausta natura.
L’uomo crea e l’uomo disfa.
Costruisce sulle fondamenta di roccia così come su quelle di sabbia.
Conosce le regole architettoniche delle fondazioni e dell’innalzamento ma anche quelle degenerative dell’inabissare se stesso e la propria condizione. Talvolta dà libertà alle prime, più sovente fa dilagare le seconde.
L’uomo vive con stizza e malumore, con odio consolidato o, nel migliore dei casi, con malcelato disappunto.
L’uomo è comunque un essere vivente unico perché riesce a rendere i suoi pensieri e le sue idee motore di forza creatrice. Da quell’intuizione trasla la sfera d’azione verso un ambito che gli è congeniale e, se dotato di talento, produce senza sosta.
Io sono stato il risultato di una condizione di grazia durante un breve momento privilegiato nella vita del mio creatore.
L’uomo coltiva l’istinto di invidiare, di intralciare e uccidere da subito il suo contiguo. Mastica e sputa erbe amare come se fosse stato costretto ad abitare una terra maligna,
coltivare una zolla arida e ostile, civilizzare un popolo restìo
ad acquisire le norme del vivere civile.
Anche le erbe amare, tuttavia, sono utili e hanno ragione di persistere tra le radici degli alberi o sul crinale più battuto dal vento.
Anche le erbe amare hanno un colore, producono un pigmento e quando si sfibrano, triturate, perdono l’aroma acre di veleno e tingono come tutte le altre, tenere e dolci, giovani e mature.
Forse quella morte per macerazione le purifica e le distilla dalla feccia. Fa perdere loro la selvatica natura ferina che punge il palato, con spiacevole acredine, rendendole poco grate a chi se ne ciba.
Non ingurgitate, ma destinate ad altro scopo, anch’esse
potranno splendere per rincorrere, sulla superficie di un dipinto, l’ansa chiara tracciata da un colle sul quale piantare
un arboscello punteggiato di verde.
L’uomo coltiva erbe amare.
Il pittore, come uno speziale, avvezzo alle misture e alla mescolanza degli ingredienti, sa quando coglierle, quando estirparle dalla terra senza danneggiarne gli steli e le foglie. Sa che quando il colore interno del sistema sanguigno, portatore di linfa e adduttore alle pagine aperte, nel recto e nel verso, è verde screziato di bruno al punto giusto, allora
estirpa e macera, macera e schiaccia, tritura e unisce a un legante che è come la durata per una voce, il corpo centrale per un assolo, la spinta energica affinché il lancio perduri per tutto il tratto da attraversare.
L’uomo possiede e tende, per indole, ad accrescere i suoi averi.
Possiede e nel momento in cui qualcosa o qualcuno crede gli appartenga, lo feconda, lo innalza a sommoscapo dei suoi pensieri, a vetta apicale dell’abbrivio creatore, o lo schiaccia fino a squassarlo, a farlo esplodere come una vescica, come una pustola maleodorante, o lo incide per ridurlo a un nervo scoperto.
Gli uomini si passano di mano in mano oggetti, cose, personali possessioni, odi e avventurati sentimenti che talvolta chiamano amore.
Gli uomini si passano di mano in mano altri uomini.
Anch’io ho seguito questa stessa parabola già scritta. La parabola secondo la quale chi possiede può e chi è posseduto no. Chi possiede fa e chi è posseduto subisce. Chi crede di possedere armi migliori di quelle degli altri, perché così le ha ricevute alla nascita o perché se l’è procurate più taglienti e affilate, più sottili e veloci o più possenti e adatte
a tranciare di netto, le usa da sopra a sotto, da destra verso sinistra e viceversa. Le usa e si terge il viso dal sangue.
Il mio sangue è rosso carminio, il mio iridescente piumaggio come le ali di paradisea è sgargiante e gagliardo sotto l’ingiuria del sole. Il mio azzurro cielo è traguardabile da un’architettura di compiuta perfezione. L’atto che in mesi consuma è una rivelazione, un annuncio di condizione
nuova, è benedicente e nel contempo una sfida.
Mi sono animato di gesti che insinuano il dubbio dopo lo stupore circa la vocazione e l’ipotetica inettitudine di fronte a quella vocazione.
Mi sono chiuso in un chiostro e ho dipanato un contenzioso di terra e nuvole, tra vapori e lenticolari accenti di paesaggio.
Il mio istinto è stato la mia grazia calligrafica.
Il mio accento di svolta ha vergato un gorgo profondo che si attorceva su se stesso e sulla divina discesa fi no alle terre che gli uomini chiamano mondo.
Sono stato figlio di uomo, finestra e riflesso di fede, orpello tra orpelli, atto di supremazia tra altrettanti tracotanti segni di gloria presunta e di caduta.
Mi hanno definito quadro, dipinto, miracolo, annuncio e incarnazione appeso sui muri di una celeste galleria, squartato e ricucito, venduto e acquistato, precipitato e risorto, testimone che avrebbe voluto non avere occhi, muto testimone.
Questa è la mia storia.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea del romanzo è nata in stretto rapporto con la mia attività di ricerca nel settore storico-artistico, come filiazione diretta in ragione delle vicende di trasmissione e provenienza che caratterizzano la storia di ogni opera d’arte. Da questo contesto, quindi, è scaturita l’intuizione di poter raccontare, come nell’ipotetica biografia di un dipinto, nel caso specifico un'”Annunciazione” cinquecentesca, anche le vicende dei committenti, dei proprietari che si sono susseguiti nel corso del tempo, dei restauratori che ne hanno risarcito la pellicola pittorica. In parallelo emerge una narrazione che attraversa i secoli, le stagioni culturali, le condizioni sociali, le vicende nelle quali l’uomo, possessore di altri uomini, si è distinto o dalle quali è stato egli stesso soggiogato.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Condurre e portare a termine il romanzo ha comportato un lavoro di scrittura e revisione, di riscrittura e valutazione di quanto già redatto nell’ottica di rendere coerente e variata la narrazione stessa e lo stile con il quale le vicende sono narrate. L’intento principale, e credo che in ciò risieda l’originalità del romanzo, è stato raccontare il percorso contiguo tra il dipinto e i personaggi, il cui tracciato si interseca senza soluzione di continuità. Per fare ciò è stato necessario ipotizzare la biografia del quadro, la sua lunga, secolare esistenza, attraverso un procedimento meta-linguistico e meta-letterario di adeguamento della lingua e dello stile al periodo storico di riferimento.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Durante il periodo di scrittura di “Passaggi di proprietà” ho letto o sono tornato a leggere Irene Nemirovsky, Sàndor Màrai, Louis-Ferdinand Céline. Il carattere eversivo e spiazzante della rapida, talvolta sintetica, talvolta cinica, conclusione delle vicende interne al romanzo in parte concordano con gli stessi intenti perseguiti dalla prosa di Charles Bukowski autore di racconti e di John Cheever.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
In prospettiva sto lavorando, in contemporanea a una raccolta di racconti e a un romanzo storico che contempera il genere giallo, l’incipit è caratterizzato da alcuni fatti di sangue, ma che non si esaurisce in questo poiché al carattere volutamente cupo e asfittico dell’esordio fanno seguito connotazioni concordi con il romanzo di formazione, con le narrazioni evocative dell’introspezione che vira in una direzione visionaria e surreale.
Ringrazio sentitamente la redazione di Librinews per aver pubblicato l’intervista e la presentazione del mio romanzo “Passaggi di proprietà”.