
Edito da Kimerik nel 2017 • Pagine: 285 • Compra su Amazon
LE PRIME IMPRONTE
I libri chiamano i libri.
Così è accaduto perdendomi nella vita di Sibilla Aleramo, nel suo libro “Una donna” 1906, nel quale l’autrice ci narra della sua esistenza oltraggiata dal marito.
Inevitabile è stata l’associazione con le storie di donne maltrattate, stuprate, uccise, che troppo spesso riempiono i nostri telegiornali. Ben consapevole che questo non è un fenomeno attuale, nulla di ciò che è violenza rifulge nuovo sotto il nostro sole; nel percorso dell’umanità è una moneta che spesso ci è passata fra le mani.
Così come non dobbiamo pensare che esista solo la prevaricazione dell’uomo sulla donna, ci sono storie che ci presentano l’altra faccia della medaglia. Ciò di cui meno si parla, non necessariamente, è meno presente o avvilente.
Inoltre, dobbiamo renderci conto che non sempre la violenza è tale solo se fisica; ma che spesso è proprio quella psicologica ad essere più infida. Una talea che penetra e attecchisce.
Da tutto ciò è partita l’idea per scrivere “Come impronte nella neve”. Che vuol essere un libro che faccia tabula rasa dell’avere, volgendo un occhio attento all’essere, tramite le storie dei vari protagonisti.
Non vi troverete storie di grandi uomini, ma vite di persone normali; anche di chi è sotto la soglia della normalità.
Troverete ampi spazi per gettarvi nella natura, fra animali non comuni, forse un poco “ultimi” in questo mondo dove, troppo, l’occhio vuole la sua parte e non si va al di là dell’estetica.
Facciamo insieme questo esperimento: cosa può accadere all’uomo quando questo si trova di fronte al niente? Quando muoiono le illusioni e la vita pare finita?
D’improvviso ci si trova in un campo innevato, dove tutte le strade e i segnali a noi noti sono invisibili al nostro occhio. Eppure, basta compiere un passo per lasciare un’orma nuova. Perché tutti, assolutamente tutti, camminando nella vita lasciamo impronte del nostro passaggio. Orme che, proprio come quelle nella neve, sono destinate a scomparire, ma che la loro fugacità non toglie il fatto che ci siano state.
Dipende da noi quanto vogliamo imprimere il nostro peso.
Essenzialmente c’è una realtà inconfutabile che stride in tutto quel biancore, anche quando non si sa più dove andare o come muoversi, c’è una sola molla che scatta al di sopra di quel compatto tappeto: la speranza. Alla fine di ogni storia, all’inizio di ogni vicenda, ci è compagna.
Cosa sarà allora questo libro? Un romanzo sulla violenza? Sulla ricostruzione? Sulla speranza? Forse un libro sull’amore: fra uomini e donne, fra compagni di avventura, rivolto alla natura, verso se stessi.
Ecco! Amare se stessi, questo il primo passo da compiere, per sfuggire alla violenza, per imprimere il peso del primo mattone per ricostruirsi; per riuscire ad amare gli altri.
Capitolo I
Zeljka aprì gli occhi: aveva dormito tutta la notte come non le accadeva da tempo. Forse il merito era di quella “ics” che barrava il calendario, sovrapponendosi a quell’11 gennaio 2016. Un tentativo, probabilmente l’ultimo, di spazzare via dalla sua anima la terra con la quale l’avevano sepolta. Si rigirò nel letto, volgendo gli occhi al soffi tto; l’inquilino del piano di sopra iniziava la sua giornata radendosi, accompagnando la melodia in ronzio minore del rasoio elettrico con la sua voce stonata. Erano sette anni che lo ascoltava rovinare le canzoni in cima alle hit parade. Si alzò, aiutandosi con un bastone che aveva per pomolo una testa d’aquila. Raggiunse la fi nestra e la spalancò: pioveva. Che altro poteva fare il cielo all’inizio di una nuova vita? Si mosse: indossò un paio di jeans e una calda camicia di fl anella a quadri blu. Si lavò il viso, si rimirò nello specchio, aggiustandosi i corti capelli biondo miele con del gel. Gli occhi acquamarina la osservavano, aspettandosi da quel rifl esso qualche risposta. La risposta di Zeljka fu voltarsi dall’altra parte per uscire dal bagno. Fino alla settimana prima si era limitata a fare scadere le giornate, così che fosse sempre troppo tardi per viverle. Non fosse stato per l’amico Lorenzo, sarebbe stata ancora chiusa in quell’appartamento, sorda a quanto le si muoveva intorno. Con lacrime alle quali vietava di trovare la strada, così, anziché piovere, si facevano elisir da bere, di volta in volta sempre più amaro. Aveva trascorso il Natale appena passato, affacciata alla fi nestra a spiare le famiglie che abitavano nei palazzi vicini, riunirsi. Li aveva visti abbracciarsi sulle soglie, scambiandosi baci, avvolti in cappotti e sciarpe, con le mani colme di pacchetti infi occhettati. Per poi pranzare sola, davanti a uno stupido alberello alto una ventina di centimetri, scovato in una scatola in cucina, nascosta dietro delle tazzine. Era addobbato con minuscole palline blu che minacciavano la caduta ogni volta che lo si spostava dal suo appoggio. Raccolse i suoi ultimi effetti personali, il resto lo aveva già preso in consegna Lorenzo, trasferendo la sua vita, chiusa in due valigie e in qualche scatolone, alla “tana”: un casale che l’amico aveva acquistato anni prima. Per un istante rimase piantata al centro del salotto, evocando gli ultimi sette anni della sua vita. Presto, forse, qualcuno avrebbe camminato su quel pavimento, incurante di schiacciare i suoi ricordi; ignaro che i propri passi sarebbero stati una gomma effi cace per cancellare il suo passato. Il suono del campanello la scosse, afferrò il citofono e vi soffi ò un: “Arrivo”. Chiuse la porta e lasciò la chiave al portinaio, il quale la salutò col medesimo gesto che ripeteva da anni: una sorta di saluto militare, accompagnato da una smorfi a di sorriso. Il tassista l’aspettava in strada. Facendola accomodare la salutò con un forte accento albanese. L’auto profumava di lavanda, che si espandeva da un Arbre Magique appeso allo specchietto retrovisore. Zeljka gli disse dove doveva andare, era un viaggio di circa un’ora. L’autista annuì e si immise nel traffi co mattutino. L’uomo faticava a parlare italiano, perciò fu felice quando appurò che la signora non faceva nessuno sforzo per intavolare una conversazione. Zeljka era persa nei suoi pensieri, l’unico movimento lo compivano gli occhi che vagavano fra le gocce di pioggia, infi landovi la strada che vi si inanellava.
Per fortuna, infi ne, era arrivata la pioggia a lavare via lo smog che si era accumulato in due mesi di siccità. Le città si erano trasformate presto in camere asfi ttiche, dove l’odore che vi si respirava era un miscuglio di tutte le esalazioni più nocive. In quegli ultimi mesi erano accadute molte cose con le quali si era trovata a fare i conti, con lo smarrimento di chi si guarda intorno in un mondo che gli è cambiato sotto i piedi, mentre gli dormiva addosso. Fino allo scorso anno era stata una donna di ventinove anni, sposata, che camminava su due gambe, sana. Lavorava presso lo studio del marito Christian, veterinario, come sua assistente. Spesso diamo per scontato quanto possediamo, non pensando, non permettendoci di fare affi orare mai il sentore che un giorno qualsiasi possa sconvolgere la nostra routine. Quella calda coperta, logora per l’uso, ma alla quale siamo affezionati e che sempre ci copre nei momenti in cui ci si accappona la pelle per un brivido. L’autista rallentò. «Visto che roba?» indicò un incrocio: dei tanti semafori uno era caduto in seguito a uno scontro con un’automobile. L’incredibile era che, anche se sdraiato, funzionasse ancora! Zeljka si sentiva così: abbattuta, eppure ancora effi ciente. «Già!» rispose. Tutto era cambiato quando aveva avuto un incidente d’auto. I vigili del fuoco, intervenuti per liberarla dalle lamiere della macchina, avevano dovuto aprire la vettura in due come una scatola di sardine. Le gambe, intrappolate nell’abitacolo, avevano subito diverse lesioni; in particolare l’arto sinistro. Dopo un’operazione e diversi mesi di fi sioterapia, si era avanzata con un’anchilosi coxo-femorale che, in parole povere, l’aveva resa claudicante per il resto dei suoi giorni. Quando l’amico Lorenzo era andato a trovarla in ospedale, portandole come dono il bastone, si era sentita come un dottor House in gonnella; solo che su di lei nessun regista o scrittore avrebbe perso tempo, narrando della sua vicenda.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea per questo romanzo è nata pensando: cosa succede se tolgo tutto ai protagonisti? Cosa serve davvero all’essere umano per essere felice? Una volta cominciato i personaggi ti guidano e sanno esattamente cosa dire!
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È cominciato e proseguito con fluidità.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Scrivo di narrativa sociale e leggo di tutto. Stranamente amo i thriller e adoro Stephen King. Diciamo che in qualche modo anche lui narra di problemi sociali, ad esempio il bullismo. Poi, come penna, ha un valore assoluto!
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Abito nella provincia di Como, in un piccolo paese. Per breve tempo, ho vissuto in provincia di Varese, per poi tornare alla mia casa natia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
“Come impronte nella neve” è il mio ottavo romanzo, uscito lo scorso anno per festeggiare 15 anni di carriera. Sto già iniziando un nuovo romanzo, l’intento è sempre quello di dare voce a chi non l’ha.
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