
Edito da Terra d'ulivi edizioni nel 2019 • Pagine: 139 • Compra su Amazon
Un cammino a ritroso per tornare alla creazione, nel senso più ampio e variegato del termine. Di questo viaggio, la poesia è il percorso: e, come tale, non è mai stasi ma moto incessante, processo dialettico, trasformazione continua. Ed è un movimento, quello della poesia, sostanzialmente sinergico e sincrono: sinergico perché l’artista, mentre crea, guarda a chi lo ha preceduto, ne eredita e ne utilizza gli strumenti, ne rielabora gli stili, i moduli, i temi; sincrono perché nella sua opera c’è contemporaneità di passato, presente e futuro.
(Da una nota di L. D. Pezzino)

Nella torre
Nella torre la lingua mi respinge
al precipizio della sillaba e fa polvere
del nome, sbriciolando
l’inverno che abitò la terra santa.
Ora le vie del canto sono aperte:
vengano i fiori e tutte le creature
a sputare sui miei versi; accorrano
alla soglia innominabile che al buio
dal buio accede e sta sventrando.

Come è nata l’idea di questo libro?
Fiori estinti è nato per setacciare la periferia desolata che mi circonda. Un tentativo di rovesciare le strutture del cemento, di mettere in bocca ai pochi vivi che incontro l’al-di-là possibile delle cose. Forse è la restituzione della mia adolescenza tanto cupa da essere comica, il tentativo di dirla, di dire: la dizione, cioè, ma praticata fino alle balbuzie.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ogni opera è un accesso, il programma di una cicatrice. Portare qualcosa a termine, portarla quindi alla parola, è una fine. Ciò esige una lotta irrimediabile con la tendenza all’in-finito propria della poesia, con l’auspicio di superare la caducità delle cose.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Più di tutti, Dylan Thomas, di cui ho curato alcune traduzioni per Menabò. I suoi richiami alla dimensione sacra e mitologica hanno contribuito alla creazione di una simbologia misterica all’interno dei miei versi. Un tentativo di creare un varco per l’indicibile, per ciò che la parola non è in grado, nella sua insufficienza, di recare al mondo. Se esistono una poesia virtuale (o ideale) e una reale, tra le due c’è sempre una frattura in cui il dire non riesce a penetrare, a prescindere dall’ordine di significanti e simboli che lo costituisce. Proprio lì, in quella frattura, il mistero diviene un varco; una soglia di accesso al senso (per dirla con Nancy) in cui le cose altrimenti inesprimibili possono trovare corpo e fortuna.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Napoli, e ho sempre vissuto nella culla della terra dei fuochi, Aversa. Una cittadina che è l’appendice dell’Impero, un campo di dissoluzione irriducibile. Questa generazione, tuttavia, porta in sé una frenesia irrisolta, un desiderio di liberazione. Una volta ottenuto i mezzi per compierla, però, c’è da capire come praticarla, questa libertà.
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Nell’anno a venire mi dedicherò principalmente al lavoro di traduzione. Su Iris News mi occuperò di continuare a tradurre i versi di Dylan Thomas, poi di Rimbaud. Mi piacerebbe affrontare i loro testi avvicinandomi il più possibile ai loro codici ritmici e sonori, tanto accesi da spezzare, più volte, fiato e fato nei lettori. Allo stesso tempo, continuerò il lavoro iniziato con Inverso, un progetto solido e sempre più vasto che ha lo scopo di ricucire il panorama poetico italiano. Non c’è ambizione in questo: è la risposta a una chiamata a cui nessuno dovrebbe sottrarsi; la risposta a una necessità di bene.