Edito da Luoghi Interiori nel Marzo 2021 • Pagine: 182 • Compra su Amazon
Tre adolescenti cercano un pizzico di trasgressione consumando erba fuori da un cimitero. Tra una riflessione e un'altra ululano alla luna, abbaiano, così decidono di chiamarsi Cani.
Una decina di anni dopo uno dei tre è morto, l'altro sta morendo (è un tossico all'ultimo stadio) e il terzo è emigrato all'estero (a Vienna). Quello che sta morendo ha fatto terra bruciata intorno a sé e decide, come ultimo disperato tentativo, di scappare dall'Italia e raggiungere il Cane emigrato che non vede da anni.
Quando i due superstiti si ritrovano ci saranno parecchi conti da saldare. Il protagonista, quello appunto conciato peggio, trovato un ambiente stimolante e nuovo, pian piano si rifà una vita, allaccia nuovi rapporti, e quando tutto sembra andare per il verso giusto ecco che arriva la ricaduta. Sarà quella definitiva?
Mio cugino, di un anno più grande di me, era la persona più assurda che avessi mai incontrato. I suoi genitori ripetevano spesso ad amici e parenti che gli avrebbero volentieri spaccato la testa, ma si limitavano ad abbaiargli contro di tanto in tanto, senza troppa convinzione. All’epoca, io ero soltanto un ragazzino e, dal basso della mia ingenuità, gli zii mi apparivano come persone sveglie e colte, ma non riuscivo comunque a intravedere nessun metodo educativo nel rinunciare a riempire il figlio di cinghiate. Mio cugino, infatti, se la rideva sempre e comunque, continuando a farsi i cazzi suoi. Stava sulle palle alla quasi totalità delle persone che s’imbattevano, volenti o nolenti, nella sua faccia da schiaffi e nei suoi eccessi e la sola idea che non cercasse di limitare le ondate di disprezzo a lui indirizzate mi creava una sorta di angoscia. Se dovessi descriverlo ora, penserei a una versione di Bart Simpson più adulta, sporca e cattiva. In una parola: il male.
Io invece, appena diciassettenne, mantenevo un profilo basso, smorzando la mia vivacità in favore dell’approvazione degli adulti. Non posso negare, però, che fossi affascinato dal suo lato oscuro e la prospettiva di trascorrere del tempo con lui mi allettava più di quanto volessi ammettere. Ripensandoci ora, forse si trattava di una mera propensione adolescenziale per la trasgressione oppure il goffo tentativo di sondare i miei limiti al fine di scoprire me stesso. Insomma, la semplice consapevolezza di fare cazzate con il re delle cazzate accendeva il mio ego. Era un’età, la mia, nella quale il senso di responsabilità occupava uno spazio ancora troppo piccolo perché potesse arrecare disturbo alla quotidianità. Badate bene: oggi sono convinto che un diciassettenne abbia tutte le capacità per distinguere il bene dal male, i comportamenti corretti da quelli fuori luogo, ma quando intorno a te l’intero universo continua a trattarti come un bambino, o ti ribelli – ed ecco che arrivano i problemi – oppure ti adegui e fai della furbizia l’unica arma a tua disposizione per trasformarti – o almeno così credi – in quello che vorresti essere. I sensi di colpa vagavano innocui tra stomaco e gola, ma a prevalere erano la spensieratezza, il desiderio di varcare confini sconosciuti e il sentirsi stupidamente grande. Oggi che sono adulto, vedo i miei coetanei inseguire la spensieratezza e tentare, altrettanto stupidamente, di apparire più giovani. Ma questo è un altro discorso.
Mia madre e sua sorella, la mamma di Paolo, erano agli antipodi: una, la marescialla, dava orari, stava attenta a cosa ingurgitassi, che non facessi il bagno durante la digestione o che non mi scottassi al sole e mi redarguiva ogni volta che passavo a modi triviali o a un lessico da scaricatore di porto; l’altra lamentava di non poter più controllare il figlio e se le facevano notare qualcosa che non le andava a genio, ripeteva la solita frase “è abbastanza grande per capire da solo che una mela non si ingoia senza prima masticarla”. Cosa cazzo volesse dire quella stupida risposta rimane per me ancora un mistero e quando chiesi lumi, dopo averla sentita per la ventesima volta, zia accennò a un episodio dai contorni vaghi, dalla sintassi improbabile e dai contenuti fiabeschi che, vogliate scusarmi, non riuscii ad afferrare. Quella donna, oggi, la ricordo come una regina di pigrizia e indolenza e suo marito, lo zio, un ometto mingherlino capace di ironizzare su tutto: indimenticabile la velocità con la quale tramutava un momento di scorno per qualche malefatta del figlio in un frangente di ilarità col resto della combriccola, come se nulla lo scalfisse. Vorrei parlarvi anche di mio padre, se solo riuscissi a individuare qualche caratteristica interessante da riportare. Lui stava dove lo mettevi. Punto. Come me, cercava di assecondare mamma. Mai una volta che alzasse la voce. Persino quando cercava di spiegarmi qualcosa si rattrappiva come nell’intimità di una confessione e il massimo che riusciva a fare era sussurrarmi un’opinione che, guarda caso, rafforzava sempre le idee della moglie.
Paolo fumava da quando aveva tredici anni, andava a letto quando gli girava, dormiva fino a tardi, diceva quel cazzo che gli passava per la testa e si masturbava continuamente. E quell’estate, nel solito campeggio del Lido di Venezia dove le nostre famiglie ricaricavano le energie da tempo immemore, si era portato due etti di erba con sé. Tre cose amava davvero: la nutella, la Coca-cola e l’erba. Le consumava tutte e tre, tutti i giorni. In questo era diligente. Le marachelle, quelle che sua madre amava definire “bambinate” si erano trasformate da un anno all’altro in un atto di vera e propria illegalità: il baco aveva completato la sua metamorfosi ed io, ebbro di stupore, giocavo a fare il gregario.
Tutti pensavano sarebbe diventato un disgraziato. Oggi penso: e se fossero stati tutti gli altri a non aver capito un cazzo? Lui si godeva la vita e faceva ciò che gli piaceva. Quelli che lo giudicavano, forse invidiavano il suo essere libero. E comunque, dei due, chi sta in un letto d’ospedale in fin di vita, oggi sono io.
Come è nata l’idea di questo libro?
Vivo in Austria. Un vecchio caso di cronaca ha scosso l’opinione pubblica e mi ha offerto l’idea di base. Il caso è questo: un uomo ha rapito una ragazzina e l’ha tenuta rinchiusa per otto anni. La ragazzina riesce a fuggire, il rapitore si getta sotto un treno. La ragazzina diventa famosissima. Pubblica libri, diventa persino moderatrice in programmi televisivi. Da questo fatto è nata una lunga e complessa elaborazione. Ci ho messo più di dieci anni per raffinare la trama.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Sei riscritture, diversi rifiuti (almeno 4), ma scrivere mi fa star bene quindi ho insistito. Dalla prima stesura alla pubblicazione ho contato più di dieci anni.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
In ordine sparso: Elias Canetti, Elfriede Jelinek, Christian Frascella, Goncharov, Nabokov, Camilleri.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Nato a Brescia nel 1979, emigrato a Vienna nel 2005.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho pronti, editati, infiocchettati, altri tre romanzi. Uno di questi dovrebbe davvero smuovere perché affronta un tema caldissimo, il privilegio femminile.
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