Presentiamo oggi il volume Millemari – Le somiglianze particolari di Vincenzo Libonati. Romanzo d’esordio dell’autore, vediamo di cosa tratta il libro edito nel 2015 da Lepisma Edizioni.
Millemari di Vincenzo Libonati: la descrizione del romanzo
Millemari è una storia di vita, d’amicizia e odio. È un’epopea familiare, un viaggio intimo nelle fantasie di un uomo, bambino prima e adulto poi. Millemari è un dipanarsi di fatti. Millemari è, soprattutto, una lunga e accorata dichiarazione d’amore.
Camarda è un luogo qualunque del Sud Italia, è un punto mobile sulla mappa. Nemmeno il mare, u mare, riesce a delimitare il paese e il mondo di Nino.
Quel mare che per la madre è un fiume, per il nonno un oceano e per l’amico una via di fuga, appare e poi fugge, viene evocato e poi ritorna con il suo carico di attrazione e pericolosità. La vita di Nino e quelle di coloro che lo accompagnano sono schizzi di un disegno comune, dove i sentimenti diventano i colori e il territorio la cornice.
C’è il percorso della vita, in Millemari. Quello fatto di ricordi e leggerezza e quello costellato dal dolore.
Un dolore sottotraccia, che non abbandona mai le pagine del libro, perché Millemari non è un ritratto generazionale, né un romanzo territoriale. Millemariè un racconto non lineare di sogni e violenze, di fughe e tradizioni, che prende forma in un continuo rimpallarsi fra l’America, la Merica terra madre e donna, Milano, Ostia e la Lucania. Perché Millemari non si trovano da nessuna parte al mondo.
Millemari li puoi solo immaginare.
Un estratto dal libro Millemari – Le somiglianze particolari, edito da Lepisma
È a quel punto che cominciai a fare i sogni a episodi. Precisi come uova di galline. Ogni notte una puntata nuova con svolgimento regolare. A puntate come ancora in televisione non ne facevano. La storia cresceva insieme a me, con un inizio, uno svolgimento e solo mancava la fine, rimaneva aperta nella memoria notturna di naufrago.
Sembrava tutto normale, una mattina come le altre, a parte il fatto delle nuvole. Le nuvole, le stesse del giorno prima, nello stesso punto e con la stessa forma, si erano fermate come dipinte nel cielo, immobili, plastiche. All’inizio nessuno ci aveva fatto caso, poi mano mano, una allusione tira l’altra, e le parole cominciano ad uscire anche dalle bocche più composte. Si erano fermate come in un quadro, ne riconoscevamo e commentavamo i contorni e le rassomiglianze, una pecora, un fiasco di vino, una sembrava addirittura una bicicletta, con tanto di borraccia, la pareidolia si diffondeva come una malattia contagiosa senza alcuna possibilità di cura. Come dei simboli statici commentati da parole dinamiche, buttate via nell’aria, quasi a casaccio. “Non bisogna mai buttarla via na’ parola, che può sempre tornare utile. I simbuli servono proprio a questo, a fare ombra. Ci si somiglia e ci si piglia, chi si somiglia si piglia, e principio e fine, quasi sempre si somigliano”. Diceva così il nonno.
Come il caos e il caso che hanno in comune molto più di quanto vogliono darci a intendere si anagrammano fra loro, ed è solo una questione di entropia e logica, roba grammaticale, le lettere prima alla rinfusa, si allineano poi ordinatamente, appena possono, specie quando noi siamo girati di spalle, vanno ad assomigliarsi. Il “caos” è “cose” messe a “caso” che si somigliano e si pigliano.
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