Edito da Pascal Basile nel 2019 • Pagine: 171 • Compra su Amazon
"Non abbiate paura del mondo che verrà".
Quando Lucio Bonetti, agente di commercio ferrarese in trasferta a Firenze, sale sul taxi di Domenico Melotti, non sa ancora di essere affetto da una sindrome che gli ha fatto dimenticare gli ultimi trent’anni della sua vita.Sarà proprio Domenico, coadiuvato da un'équipe di ingegneri bioinformatici, che attraverso un sofisticato trasmettitore neuronale, lo aiuterà a recuperare i suoi anni perduti catapultandolo in una vita completamente nuova, sia per Lucio che per il lettore.
Lucio e Domenico sono solo i personaggi principali di una storia in cui il protagonista è un evento verosimile, violento e improvviso che ha costretto il genere umano a concepire, per garantirsi la sopravvivenza, un inimmaginabile nuovo paradigma.
Firenze, lunedì 29 ottobre 2018, ore 19:30.
Il treno di Lucio Bonetti, un sessantenne agente di commercio plurimandatario ferrarese, arrivò puntualmente in ritardo alla stazione Santa Maria Novella.
Ogni ultimo martedì del mese era solito incontrare il responsabile acquisti della Coop Toscana, questa volta per concludere il sospirato accordo per una consistente fornitura di vino bio dei colli bolognesi.
Con la provvigione di quella commessa avrebbe comprato l’ennesima automobile, una lussuosa cabriolet che gli rombava in testa da mesi, di quelle scomode per quattro ma divertente per due.
Era un venditore nato, di quelli che quando parli di qualsiasi cosa hanno sempre qualcosa da dire, che qualsiasi cosa ti sia mai accaduta, certamente a lui è accaduta un po’ di più, che i sentimenti non li contemplano, se li inventano quando serve, se serve.
Era un uomo dall’aspetto calcolato, calcolati erano gli abiti da indossare a seconda delle circostanze; era calcolato anche il taglio dei capelli sale e pepe che andavano dove volevano loro ma sempre nella posizione migliore, così come la barba ordinatamente incolta.
Chi fosse davvero non lo sapeva neanche lui, era ciò che occorreva essere per cadere in piedi in ogni circostanza.
Insomma, era l’esempio del perfetto apparire, il tipo che piace a quelle donne che, parafrasando De André, fanno l’amore per avercelo garantito e per non sbagliare nome, chiama tutte ‘tesoro’ o ‘cara’, a seconda del grado di confidenza.
Quel lunedì di ottobre l’aria era calda come in un pomeriggio di maggio e Maria Luisa gli aveva dato buca per la cena e, soprattutto, per il dopocena. Dopo aver posato il bagaglio in hotel, si parcheggiò nella consueta trattoria a consolarsi con un bella fiorentina di chianina e una bottiglia di Chianti che – si sa – è la morte sua. Ritornare in hotel fu una scena in slow motion per il Chianti che diceva la sua negli occhi beoti ma lucidi di soddisfazione.
La doccia tiepida fu l’ultima azione in verticale di quella notte calda di ottobre[1].
Il letto comodo e il volume basso della tv lontana furono i titoli di coda di un giorno estivo d’autunno e, a sua insaputa, di un’epoca intera.
La mattina dopo, a svegliarlo fu uno spillo di luce accecante proveniente dalle tende fortunatamente chiuse male.
A tirarlo giù dal letto fu la consapevolezza di avere dimenticato di puntare la sveglia del telefono: erano le 9:00, già tardi per il suo sacro appuntamento delle 10:00.
Imprecando contro qualsiasi cosa non c’entrasse con niente, si lanciò in doccia dove, per recuperare tempo, si lavò i denti sputandosi addosso dentifricio a mischiarsi con lo shampoo doccia.
Ore 9:10
Si asciugò i capelli alla meglio – tanto quelli vanno a posto da soli – e durante la vestizione con l’abito programmato stabilì di saltare la colazione in hotel, dove era solito mangiare abbondantemente prima degli incontri importanti.
Ore 9:20
Evacuò la stanza con la stessa serenità con cui si abbandona casa durante un terremoto e prese le scale, questa volta imprecando contro l’ascensore occupato.
Appena fuori dall’hotel, valigetta alla mano, fu turbato da un’insolita quiete cittadina, un rumore di fondo insolito, a metà tra una domenica di elezioni politiche e una città innevata con le strade non ancora pulite. L’aria era densa di ozono e ossigeno e Lucio barcollò di iperossigenazione.
Puntò un bar per garantirsi il minimo sindacale di una colazione veloce; lo invase e senza nemmeno dire buongiorno ordinò:
«Un cornetto integrale al miele e un caffè, per favore.»
«Si accomodi pure, glieli porto subito.»
«No, consumo al banco, ho fretta.»
Il barista lo guardò stranito e lanciò al collega un’occhiata come per dire ‘attenzione, questo è uno di quelli’.
Lucio divorò il croissant dolcificando l’amaro del caffè col miele che gli impastava la bocca: usare il sapore dolce del croissant era il suo espediente per non zuccherare il caffè e tenere a bada la glicemia.
Cercò la cassa senza trovarla.
«Quanto le devo?»
Il barista inarcò il sopracciglio destro e rispose con aria scontata: «Niente.»
Lucio aveva troppa fretta per fermarsi a discutere, sfilò velocemente cinque euro dalla tasca, li lasciò sul bancone e scappò via. Il barista prese quel rettangolo di carta, lo osservò con curiosità, lo annusò, lo mise controluce e lo mostrò al collega che lo guardò come un archeologo esamina un monile appena trovato durante gli scavi della metro.
Ore 09:35
Si buttò di testa nel primo taxi della fila.
«Buongiorno!»
«Buongiorno a lei! Dove vuole che la accompagni?»
«Via Santa Reparata 43, però faccia il giro più lungo e vada piano; so che non è lontano ma lei ci metta almeno dieci minuti.»
Lucio non era in ritardo rispetto all’orario dell’appuntamento, era in ritardo rispetto alle sue abitudini: prima di ogni riunione aveva bisogno di fermarsi fuori dall’ufficio almeno quindici minuti, il tempo di ripassare a mente la strategia del Risiko della vendita.
Questa volta, quei quindici minuti scelse di farseli in taxi ad occhi chiusi.
Il tassista era un quarantenne di nome Domenico, sguardo biblico[2] e ghigno criminale[3]; un simpatico, di quelli che parlano volentieri con tutti e per ognuno hanno un argomento diverso.
Ne avrebbe avuti anche per Lucio se, invece di stare con gli occhi chiusi, gli avesse prestato il fianco a una conversazione che evidentemente non riuscì a prendere vita.
Ore 9:55
«Eccoci arrivati, Via Santa Reparata 43.»
Davanti all’ingresso spalancato, un’enorme scultura di plexiglass portava la dicitura ‘Museo del Commercio’.
Lucio aprì gli occhi e fece la stessa faccia che si fa al circo quando il trapezista cade e sotto non c’è la rete.
«Sicuro che questo sia l’indirizzo giusto? Siamo in Via Santa Reparata 43?»
«Certo, signore. Vede? C’è scritto…»
«Ma io cercavo la sede della Coop… si è trasferita?»
«Signore, sono quasi trent’anni che qui non c’è più la Coop… ora c’è il Museo del Commercio.»
«Trent’anni? Ma se ci sono stato un mese fa!»
Lucio entrò con gli occhi dentro gli occhi di Domenico riflessi nello specchietto retrovisore; l’incrocio degli sguardi andò avanti per quindici lunghi secondi con la schiuma dell’ira che gli montava nello stomaco.
Al sedicesimo secondo aprì con violenza lo sportello e, lasciandolo aperto, corse imprecando dall’edicolante di fronte: «Dove sono gli uffici della Coop?» aggredì il giornalaio.
Il ragazzo, poco più che ventenne, lo guardò con aria disarmata e incolpevole.
«Che cos’è la Coop?”»
«Come che cos’è la Coop? Gli uffici della Coop, Cristo!»
Lucio allungò la mano con le vene gonfie di idrofobia e agguantò il ragazzo per il collo scuotendolo come i bambini scuotono i pupazzi.
«Senti, ragazzino, hai zero secondi per dirmi dove cazzo si trova quel cazzo di ufficio della Coop! Parla! Perdìo!»
Mollò il ragazzo dagli occhi verdi che sembravano di vetro[4] facendolo rimbalzare contro la parete posteriore del gabbiotto; attraversò la strada senza neanche guardare se arrivassero macchine e con tre salti[5] era già dentro al Museo del Commercio lasciandosi alle spalle il capannello di persone che si era formato intorno e Domenico che, sceso dal taxi, stava già telefonando al Pronto Intervento.
Il portiere del museo che dalla sua guardiola aveva assistito alla scena andò incontro a quell’individuo in avanzato stato di isteria, lo agguantò per le braccia e fermò la sua corsa.
«Cosa succede? Dove va? Stia calmo!»
Lucio superò con lo sguardo il portiere che lo bloccava e fu sconvolto ancor di più dal datario digitale sopra la guardiola che indicava: ‘ore 09:58 – venerdì 30 ottobre 2048’.
Ora il suo sguardo era quello di chi, trovandosi troppo vicino al trapezista precipitato al suolo, ha la faccia schizzata del sangue di quel disgraziato.
Non capendo più nulla della situazione in cui si trovava, ebbe solo lo spazio di impazzire ufficialmente; l’isteria si fece conclamata e divenne follia, puro e feroce istinto animale: afferrò un ombrello dal portaombrelli e iniziò a colpire tutto ciò che aveva attorno compreso il portiere che dovette ripararsi in guardiola per evitarlo.
Gli uomini del Pronto Intervento arrivarono un secondo prima che Lucio, uscito di nuovo in strada, lanciasse sulla folla una bicicletta sradicata da una rastrelliera.
[1] da “Apriti cuore” (Lucio Dalla)
[2] da “Se io fossi un angelo” (Lucio Dalla)
[3] da “Tutta la vita” (Lucio Dalla)
[4] da “Balla, balla ballerino” (Lucio Dalla)
[5] da “Anna e Marco” (Lucio Dalla)
Come è nata l’idea di questo libro?
Dalla necessità di raccontare un’idea di futuro che mi ronzava in testa da anni, un futuro del mondo tanto inimmaginabile quanto, secondo me, proprio oggi assolutamente inevitabile, così inimmaginabile da farmi apparire matto, ma così inevitabile da risultare forse fin troppo lucido. Il libro è l’incontro di questi due estremi.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Per me che mi occupo da 30 anni di canzoni – in cui la vera sfida è la sintesi – scrivere il libro è stato estremamente faticoso dovendo completamente ribaltare le regole di scrittura. Se per 30 mi ero abituato a raccontare una storia nei confini di 4 minuti e poche righe, per scrivere il libro ho dovuto imparare a essere “rilassato”, a non avere la fretta di chiudere un racconto anzi, dilatarmi per essere certo che i concetti espressi non rischiassero alcun tipo di mal comprensione. Insomma, mi sono dovuto abituare alla libertà totale di dire ciò che volevo nel modo che volevo. Avere a che fare con la libertà vera non è cosa facile, è fatica.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Nel mondo strettamente letterario, che io sappia, nessuno. Certamente, Lucio Dalla – che mi insegnò a scrivere i testi delle canzoni – è per me un inevitabile riferimento antropologico prima ancora che letterario.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Per i miei primi 18 anni ho vissuto a Taranto, a parte un frangente di 2 anni meravigliosi vissuti a Gaeta, dai 12 ai 14 anni. È lì che diventai biologicamente uomo. Da 33 anni vivo a Bologna.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Appena terminato il libro giurai a me stesso che non ne avrei più scritti, anche perché per scrivere un libro bisogna avere qualcosa di importante da dire. Ma sento che questo giuramento potrebbe accusare i primi cedimenti. Tutto dipende dalle evoluzioni sociali, quanto saranno così autolesioniste da farmi venire in mente l’idea di un nuovo paradigma da proporre, ammesso che l’idea mi venga.
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