Edito da LETTERATURA ALTERNATIVA nel 2019 • Pagine: 296 • Compra su Amazon
Il titolo si spiega nel culto del protagonista per il film che rappresenta la voglia di libertà in un mondo oppresso dai condizionamenti e dai pregiudizi. Il racconto si sviluppa in parte come romanzo di formazione. Un gruppo di giovani cresce e diventa adulto tra gli anni sessanta e la fine del secolo scorso.
Riccardo, Ric, è l'io narrante che tesse i rapporti con gli altri personaggi. La sua queste è la voglia di cambiamento e in questa ricerca non è solo. Nel conflitto tra i problemi della vita e il proprio mondo interiore, l'esperienza può avvelenare la coscienza, mentre ciò che resta dell'innocenza, anche se non rivoluzionario, può aprire la strada al cambiamento sociale, a cominciare dal recupero di sé.
È un piacere vedere che la sua carica di vitalità è incrementata di pari passo con la ciccia e che ha adottato una nuova pettinatura sostenuta da una serie di forconi, messi qua e là casualmente tra un insieme pirotecnico di cernecchi slegati e indomabili. Continua a inforchettare per tutto il tempo che siamo insieme e la immortalo nella posa di affiché fin de siecle, della donna che si pettina con le braccia sollevate in un’atlantica impresa, mentre in mano tiene una forcina biascicata nel tentativo di parlare. E ancora una volta mi fa macinare calli, callette, fondachi, ponti, fondamenta, in uno zigzagare senza sosta dove tutto è esclamativo, fotografabile, wonderful. La scatenata californiana morde il freno solo quando sente il morso della fame e allora è capace di fiutare dove si mangia più cheap, con quattro soldi, in tutta la laguna. Ho ricordato una rosticceria tipo snack bar, con panchette sopraelevate per cosce da cestisti e una stretta losanga di legno lungo il muro, dove puoi appoggiare il piatto, in castigo. Durante una mia precedente visita avevo intuito che per dei turisti morti di fame non doveva essere male e così avevo preso a riferimento il Rialto, la statua di Goldoni e un paio di negozietti di indianerie e cineserie veneziane. Annie pretende che la aiuti a scegliere, così le spiego ogni piatto, neanche fossi uno chef internazionale. E poi, come si dice “marinato” in inglese? La minaccio di morte violenta se non mi segue subito in piazza San Marco e se non si stravacca da qualche parte, innocua e mansueta. Ma anche qui, poi, è sì abbastanza innocua, perché non osa farmi spostare le chiappe da un bel pezzo di marmo pario, ma non più mansueta di una manzetta assediata dai tafani. Ora sono i piccioni, perché non si può tornare in America senza averli ingozzati – alla faccia dei monumenti che quelli scacazzano ogni giorno – ora sono le cartoline tonde multivision che come qua non ce ne sono da nessuna parte, ora il bisogno altruistico e petulante di correre in soccorso di visi yankee apparentemente in difficoltà e indecisi da dove cominciare, ora a pianificare il migliore sightseen di Venezia in sole dieci ore per due giapponesi occhialuti, sorridenti e deferenti. Le dico che adesso capisco perché il grande cinema è nato a Hollywood: lì c’era tanta materia prima, ed è meglio stare a guardare lei piuttosto che i fratelli Max. “O.K. me lo sono voluto un bel dito all’insù, andrò a fan culo, va bene, ma siediti per favore!” All’interno dell’ostello non sono gradite le discussioni di nessun tipo, specie se politiche. Dobbiamo essere l’immagine della gioventù bella, sana, atletica, usare il dentifricio tre volte al giorno sulle note di Barbara Ann e lasciare il cervello all’entrata: il guarda-cervelli ve lo restituirà alla partenza, ma attenzione a conservare lo scontrino. I discorsi hanno perciò il loro teatro naturale davanti al fondale di San Marco, con i piedi ciondoloni sull’acqua brulicante di gamberetti in piena mutazione genetica. Per chi non sopporta gli effluvi salmastro-fecali, ci sono il muro e il selciato. Ad Annie sembra stupido sprecare una serata veneziana alle Zitelle, ma le dico che l’isola si chiama così perché ci vivevano due sorelle che sono rimaste zitelle, spinsters, perché avevano la pretesa di portare i loro lovers tutto il giorno in giro per Venezia e le chiedo come fa lei a essere Wertmuller, Jane e Cita tutto in una persona. Mi dà uno spintone cameratesco, uso semper fidelis, arruolati in marina e girerai il mondo, che mi fa piombare tra le ginocchia di alcune zazzere nostrane, così dico: “Scusate, la mia ragazza è una campionessa californiana di catch e io sono il suo allenatore”, ma il commento più carino è “fatti fottere”. Incrocio le gambe e faccio un segno ad Annie e, siccome siamo in pieno spreco di neuroni, le traduco come posso quello che dicono. La zazzera tipo beatlemania, acciambellato alla mia sinistra, ha un tic nervoso agli occhi e ogni volta che gli viene dice un “cazzo” o viceversa, sbarrando lo sguardo azzurro pervinca nella luce portuale delle lampade al sodio. “I nostri genitori, gli adulti, quelli che contano, i potenti, cazzo, non hanno fiducia in noi o più probabilmente hanno paura della nostra forza. Per ora è ancora potenziale, ma presto le nostre idee saranno le idee di tutti i giovani e quando i giovani saranno cresciuti, cazzo, voglio vedere se le cose non cambieranno, cazzo! Per questo è importante diffondere le idee e diventare ogni giorno sempre più numerosi, cazzo. Sono sei mesi che vado in giro, sono stato anche all’estero, e le cose stanno davvero cambiando dappertutto. È che devono cambiare, ché è giusto così, ché la generazione di prima ci stava portando verso la terza guerra mondiale, al disastro atomico, ma che i giovani di tutto il mondo hanno capito, cazzo, e non lo lasceranno fare!” “Ma fammi capire!” interviene un tipo scamosciato chiaro a frange da pellirosse. “Fino adesso avete fatto tabula rasa di tutto. Ma non si può fare così. Mio padre ha fatto la Resistenza, era partigiano, ora è comunista. Io lo ammiro per quello in cui ha creduto, giustifico quello che ha fatto. Non c’era alternativa. Cosa avremmo fatto noi a quei tempi, i sit-in pacifisti davanti a palazzo Venezia? La Resistenza contro gli errori di allora è stata covata per anni e poi si è attivata in guerra. È giusto così! Sono passati dal rifiuto delle idee imposte dal regime alle armi, perché non c’era altro da fare. La non violenza, coi tedeschi in casa, sarebbe stata solo auto annientamento, magari su un piatto d’argento”. “Va beh, comunque tuo padre ha il torto di essersi fermato alla Liberazione e crede che un sistema repressivo come quello russo possa risolvere tutto, possa portare al cambiamento e possa far sparire qualche ingiustizia. Ma vale la pena un’alternativa così?” “Intanto si comporta come tutti, paga le rate della Fiat 600 e risparmia per la casa dei suoi sogni per sé e la famiglia. In testa c’ha pure la fabbrichetta e quando ci arriverà sarà vecchio e morirà di cancro per la merda che ha respirato, oppure esproprieranno il suo terreno per metterci le nuove fabbrichette”. “Ha ha! E poi se andrà bene le industrie le faranno un po’ più in là e scaricheranno le loro merde su di noi, che vivremo tappati in casa con le maschere antigas e fuori sarà tutto morto, grigio come il paesaggio di Hiroshima e le nostre galline sembreranno extraterrestri sopravvissuti a un campo di sterminio intergalattico”. “Sai cosa ti dico?” intervengo a rinforzo dell’esploratore del basso Po. “Che quelli come tuo padre sono entrati nella Storia perché l’hanno fatta, perché hanno agito, ed è così che dobbiamo fare noi: agire! Non basta dire quello che non ci va, quello che ci rifiutiamo di fare, di definirci solo in negativo! Bisogna anche entrare nel sistema, per scardinarlo”. “Non spalare merda! Tu ragioni come quelli che dopo essere stati tanto dentro al sistema, cominciano anche a starci bene, veh!” “Un momento dai, perché no? Perché non dovremmo fondare un nostro partito, andare a fare casino in Parlamento, alla televisione, fondare giornali a larga tiratura? Perché i nostri ciclostilati rischiano di rimanere bollettini d’informazione parrocchiale, sia ben chiaro! Perché non dovremmo desiderare il potere per poi fare i cazzi nostri? Se pensi che il pericolo sia che una volta che ci sei dentro ci sei dentro, allora vuol dire che sono le persone che hanno fatto il Movimento ad essere delle teste di cazzo e non il Movimento stesso. A non fare niente si lascia campo libero agli altri e allora saranno i loro figli a fare la storia di domani e non noi!” Annie vuole capirci qualcosa e preme per un resoconto e, mentre epitomo tutto, sento che il mio intervento è stato apprezzato con dei “chi cazzo l’ha chiamato questo qui”. Così non ci rimane che fare una superveloce puntata a San Marco, tanto la corsa è praticamente regalata, a “slurpare” un torreggiante semifreddo. Con i gomiti sulla scia di spuma maleodorante, respiro la sinestetica luce lunare, guardo benevolo Annie e le dico in italiano: “Anche oggi i tuoi due etti non te li leva nessuno!”
Come è nata l’idea di questo libro?
La necessità di dire la mia su quegli anni è stata la prima spinta, senza dubbio. Mi pareva che allora in Italia ci fossero troppe mistificazioni del 68, liquidato magari come mito scomodo, oppure una eccessiva focalizzazione sull’aspetto politico che ha prodotto in alcuni Stati gli anni di piombo. Purtroppo la nostra Storia è stata anche quella, ma non solo. Soprattutto il nostro Paese è caratterizzato da un forte provincialismo che ha stemperato in esiti diversi gli stimoli, la voglia di cambiamento di un mondo migliore, che attraversavano allora l’intero pianeta.
Per chi viveva in periferia tutta questa idea del mondo sottosopra poteva non arrivare neanche lontanamente a sfiorare le coscienze. Arrivavano comunque informazioni, atteggiamenti, mode, alcuni aspetti della contestazione, magari solo superficiali, o solo legati all’apparire. Tuttavia non si può generalizzare e creare tipologie di comodo, perché comunque dovunque poteva esserci qualcuno che attraverso i media drizzava le antenne, recepiva quel senso di inquietudine che lo faceva empatizzare con altri coetanei lontani migliaia di miglia. Per me, che giovanissimo venivo appunto dalla periferia, sbarcare in una grande città al centro degli avvenimenti in quegli anni, è stato come uno schiaffo a tutte le visioni precostituite del vivere sociale che mi ero immaginato nell’adolescenza.
Dal punto di vista diacronico molte cose sono successe, talmente tante che la percezione a distanza di anni è di una grande confusione. Questo non nel senso di incertezza nelle idee, semmai di eccesso, di rumore informante. In realtà ognuno sapeva benissimo in cosa credere.
Una seconda spinta mi è venuta da quelli più giovani di me che erano convinti che avessi vissuto, come tutti i giovani sessantottini, chissà quali esperienze, dall’amore libero alle droghe psichedeliche. Nel romanzo ci sono avventure che un ragazzo medio, di estrazione sociale media, avrebbe forse potuto esperire, ma forse anche no. Pur facendo uno sforzo di memoria documentale, mi pare che le vite eccezionali fossero rare allora come lo sono oggi. Alcuni fatti nel romanzo sono ricordi di ricordi e racconti all’ennesimo grado e tutti gli altri frutto della creatività.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato un processo lungo e faticoso. Il romanzo si snoda grosso modo in tre periodi: quello prima dell’esperienza politica, quello universitario dei protagonisti in piena rivolta studentesca e quello della maturità di adulti. Ci sono state diverse stesure e non sono affatto sicuro che non si possa ancora metterci mano. La prima era scritta in un doppio registro linguistico. Da una parte mi ero sforzato di far parlare i personaggi con un linguaggio giovanile che li caratterizzasse in modo univoco, dall’altra di sottolineare l’uso comune del politichese e il sinistrese in particolare, che imperversavano in certi ambienti, come quello che, ad esempio, ha prodotto pagine bellissime sul Manifesto. Purtroppo mi sono reso conto quasi subito che chiunque avrebbe preferito leggere l’elenco telefonico di New York piuttosto che quel malloppo informe e contorto quanto il gruppo del Laocoonte, senza però averne la stessa armoniosa bellezza. In un secondo momento il dattiloscritto è stato visto (letto spero) da Fernanda Pivano, la quale molto gentile come al solito mi ha incoraggiato e consigliato di lavorarci ancora su prima di trovarmi una casa editrice. Solo per averlo promesso a lei ho deciso di tirare fuori dal cassetto questo romanzo. Spero di assolvere così ad un compito cui non potevo sottrarmi.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori di riferimento? Amo molti autori ma non credo di aver pensato a dei modelli. Forse all’inizio ho tentato di sperimentare una scrittura libera dove giocavo sugli equivoci creati dall’uso improprio delle preposizioni articolate per creare significati nuovi. Poi mi sono reso conto che se non sei nessuno rischi solo di essere tacciato di analfabetismo e allora ho riscritto in una forma più “accettabile”. I dialoghi erano molto vicini alla lingua viva, poi si sommavano a un contenuto spesso pesante, dovendo esprimere i pensieri di un’epoca, così ho preferito disambinguare il più possibile e riscrivere in una lingua più piana.
Prima di vincere un concorso da insegnante di Lettere alle Superiori, sono stato a contatto con scrittori importanti, dai quali ho cercato di apprendere il più possibile quella che ho sempre ritenuto la mia arte. Li ho osservati a lungo, mentre mi provavo a muovere i primi passi. In seguito l’insegnamento mi ha preso completamente ma soprattutto mi ha impedito di sentirmi completamente libero di scrivere. L’idea che mi sarei sentito giudicato dalle componenti della Scuola e che cioè mi sarei dovuto adattare a scrivere tenendo conto dei giudizi di genitori, studenti e colleghi, ha pesato sempre sulla decisione di pubblicare. Non quella di scrivere però. Il romanzo in questione è ambientato in una zona franca che va dalla Liguria al Piemonte e alla Toscana dove vengono convogliati ricordi personali, i più di secondo grado, insieme ad altri che sono appartenuti a tante persone conosciute durante gli anni. In realtà sono una spugna che trattiene tutto quello che le viene raccontato. Bisogna stare attenti con me; tutto quello che mi viene narrato potrebbe finire in pagine scritte (ma non essere usato contro nessuno).
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in Liguria in terra di confine, la Lunigiana storica. Sono molto orgoglioso delle radici ligustico-celtiche anche se può sembrare anacronistico. In realtà mi sento anche cittadino del mondo. Ho viaggiato e vissuto in posti diversi. Nel villaggio globale gli uomini hanno le stesse esigenze e credono negli stessi valori fondamentali. Se si rispetta la libertà degli altri facciamo crescere la nostra libertà e la nostra identità.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sono uno scrittore-poligrafo, nel senso che mi piacciono generi diversi o forse non riesco a comprendere le differenziazioni per generi e tendo a mescolare tutto, come fa la realtà d’altronde. L’ultima cosa che ho scritto è una lunga favola sugli abitanti fantastici degli Appennini, che spero di pubblicare presto e intanto sto elaborando un dramma famigliare borghese ambientato alla fine del secolo scorso, un po’ thriller, un po’ romanzo di formazione con tanti conflitti psicologici. Un qualcosa da destinarsi alla primavera de 2020. Speriamo.
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