Edito da L'Erudita nel 2019 • Pagine: 525 • Compra su Amazon
Attraverso il racconto di mille anni di storia, Greco narra la vita, gli amori, le gioie e la morte di due rami familiari di una lunga stirpe calabrese, dal 989 al 2017.
Il giovane Agapito e il suo rapporto conflittuale con il mare alle soglie dell’anno Mille; Maruzza e la caccia alle streghe; Dolores e l’impresa garibaldina; Gabriele e il suo amore impossibile sullo sfondo della Prima guerra mondiale; Maria Concetta e la battaglia all’ultimo sangue con la morte. Tanti personaggi, vite ordinarie ed altre eccezionali, accompagnano il lettore attraverso la storia della Calabria e dell'Italia, raccontando di tradizioni popolari, usanze antichissime, credenze e superstizioni radicate in una terra che non ha mai abbandonato le sue radici più profonde.Luigi Marcus Greco, con uno stile elegante e ricercato, accompagna il lettore alla scoperta della storia della sua famiglia attraverso un caleidoscopio di personaggi affascinanti e diversissimi.
Che io sapessi impastare con una maestria fuori dal comune è cosa nota. Ma prima ancora di imparare a menare la pasta, fui presa con mio padre a lavorare. A otto anni compivo già lunghi percorsi in groppa a un asino, completamente sola e sotto qualsiasi cielo. Che piovesse o splendesse il sole o nevicasse, il mio compito era quello di portare a termine gli ordini di mio padre. Spesso mi tiravo indietro, buscandone in modo violento, finché non capii che avrei fatto meglio a sottostare al mio padrone, facendogliela sotto il naso quando possibile. Un giorno, papà se ne tornò con un paio di scarpe nuove per me. Un paio di scarpe da lavoro di pelle nera lucida, tanto brutte quanto scomode.
Dopo averle misurate, parlai con lui perché me le cambiasse con delle altre, con cui poter camminare in maniera più confortevole. Si rifiutò, così decisi di fare di testa mia e le gettai nel fuoco, confessando il giorno dopo di non riuscire più a trovarle da nessuna parte. Per la mia inettitudine, mio padre mi costrinse ad uscire senza scarpe quel giorno, ma poi si intenerì e me ne portò un altro paio, più comode: quello che non avevo raggiunto con il dialogo lo avevo ottenuto con l’inganno.
Mio padre fu il primo uomo che tentò di mettere catene alla mia libertà. Per questo motivo, il suo carattere dispotico mi stava stretto.
Sin da quando, bambina, mi imponeva lunghi viaggi per le desolate e impervie stradine che si insinuavano in mezzo alle montagne. Con l’arrivo del primo fidanzatino, le cose si complicarono ulteriormente.
Turino fece la sua comparsa subito dopo che finì la guerra. La sua famiglia proveniva dal sud, anche se si erano trasferiti quando lui era ancora piccolo. Com’era successo già per Teresa e per Peppina, le mie sorelle più grandi, papà non vide di buon occhio neanche il mio spasimante.
Quando scopriva che qualcuno era interessato a noi, si prendeva qualche giorno per studiarlo e poi cominciava ad assillarci: uno era troppo povero, un altro troppo acculturato, un altro ancora abitava lontano e così via, finché non restavano due possibilità. Decidere di dargli ascolto o scappare di casa.
Io scelsi la fuga e in barba a mio padre, qualche mese dopo me lo sposai, il mio spasimante.
Lo amai tantissimo, senza riserve, ma non fu un marito semplice.
Testardo, autoritario tanto quanto mio padre, irascibile e non esente da vizi. Ci sposammo nell’anno 1951 e concepimmo subito un figlio, Angelo. Lo attendemmo tanto, forse così tanto che non arrivò mai. O meglio nacque, ma già morto. Il parto fu difficile, la levatrice usò troppa forza nello stringere i ferri e gli stritolò il cranio, mettendo fra le mie braccia ansiose un esserino insanguinato ed esanime.
«Che cosa hai fatto?! Io t’ammazzu, disgraziata!» gridai contro la levatrice, unica responsabile del dolore più grande che provai nella vita.
Urlavo e piangevo, disperata, a tal punto che dovetti sembrare io la bambina appena nata. Solo che quelle lacrime non erano il fragoroso inno alla vita di un neonato che liberava i polmoni non abituati all’ossigeno, ma grondavano l’indicibile strazio di una lacerazione fisica e psicologica.
Quelli che seguirono mi sembrarono giorni infiniti. Ogni giorno infliggeva un colpo secco in quella ferita aperta: il sole stesso, col suo sorgere e il suo declinare, era il simbolo di un’infelicità che mi pareva eterna. Cominciai a pensare di non essere degna di vivere, di non avere il diritto di restare sulla terra, di fare un torto al mio bambino che aveva sfiorato per nove mesi la vita, senza poterla mai acciuffare con le sue piccole mani. Io, che non avevo mai avuto paura di nulla, mi ritrovai di colpo a temere la mia stessa ombra.
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